Nino Gennaro |
di Aldo Migliorasi
Ventuno anni fa moriva Nino Gennaro, scrittore, drammaturgo, poeta
corleonese, attivista gay. Negli Anni 70, nel regno mafioso di Luciano Liggio,
destò scandalo con la sua voglia di rivoluzione culturale, morale e politica. A
Palermo con Maria Di Carlo e la sorella Giusi fondò il "Teatro
madre", e scrisse tantissimo contro ogni logica di dominio
Se Nino Gennaro fosse morto ammazzato, state sicuri che della sua vita ne avrebbero
fatto un film. Invece Nino morì di Aids. A quarantasette anni, nel 1995, a
Palermo, dove si era trasferito dal suo paese natale, Corleone. “Trasferito”, forse, non è la parola giusta:
Nino della sua intelligenza, del suo corpo, della sua omosessualità, ne aveva
fatta una bandiera inconciliabile con, come lo chiamava lui, il “tardo impero
mafioso” corleonese. È qui, nella “repubblica indipendente” di Luciano Liggio,
che Nino - coscienza civile scomoda e poetica - raccoglie intorno a sé un
gruppo di giovani tra cui, con grande scandalo e ostilità dei parenti, alcune
ragazze minorenni. Con loro, sin dai primi anni ’70, dà vita al primo circolo
Arci, a uno della Fgsi (Federazione Giovanile Socialista Italiana), al circolo
popolare “Placido Rizzotto” e, l’otto marzo 1975, alla prima Giornata della
Donna mai festeggiata a Corleone. Grazie a Nino arrivano libri, temi di
discussione proibiti o sconosciuti; e con essi il vento di libertà del ’68, il
desiderio di cambiamento che in quegli anni accomunava le nuove generazioni in
tutto il pianeta. Nino aveva palle da vendere. Tutte iniziative che hanno però vita precaria: i circoli chiusi
per la loro indipendenza, i giovani e le poche donne che lo seguono spiati,
perseguitati, rinchiusi. «Maria Di Carlo, una di noi – racconta lo
stesso Gennaro -, viene picchiata dal padre medico… ne parlano tutti i
giornali. Il pretore, un giudice di Magistratura Democratica, condanna il padre».
Maria Di Carlo e Nino Gennaro |
Maria Di Carlo e Nino Gennaro
Appena la ragazza compie i diciotto anni si rifugia a Palermo dove
Nino, assieme alla sorella Giusi, si era
trasferito da poco: cercando la libertà si può trovare la propria. È il 1977.
Nino porta le sue poesie alla facoltà occupata di Lettere scrivendole su grandi
fogli d’imballaggio che appende alle pareti: saranno poi raccolte in un volume
dal titolo “Rivoluzione culturale meridionale”. S’impegna nella lotta per i diritti degli omosessuali, per il
diritto alla casa (“la casa è come il pane” è lo slogan che conia e scrive su
muri, manifesti, magliette). Nel 1986 è fra i fondatori del Cocipa (Comitato
cittadino di informazione e partecipazione) e fra gli ispiratori del Centro
Sociale San Saverio all’Albergheria, uno dei quartieri più degradati del centro
storico di Palermo; sempre in quegli anni ritorna simbolicamente al suo paese
natale collaborando a "Città Nuove", il primo giornale antimafia di
Corleone.
Infine, all’inizio degli anni Ottanta, assieme a Maria e Giusi,
crea il “Teatro Madre”, un'idea, un
luogo dove riversa la propria passione, una rappresentazione viva dalla poesia
che pervade la sua esistenza. Un cuore rosso trafitto da una svastica nera ne è
il simbolo. «Nino l’aveva ideato in seguito ad un corto circuito – racconta
Massimo Verdastro, curatore del libro di Gennaro “Teatro Madre” -, una libera
associazione nata dalla contemporanea lettura del Mein Kampf e
dall’ascolto di un’edizione dello Stabat Mater di Pergolesi
al Teatro Biondo. Quell’inquietante vessillo stava a sottolineare ‘il nazismo’
insito nei rapporti materno-filiali, e comunque nei legami di amore-possesso.
Era come un avvertimento a lasciare alle spalle le ‘antiche viscere’ e allo
stesso tempo un doverci fare i conti».
Un teatro, quello di Nino Gennaro, dove gli attori sono autori che
interpretano se stessi; un pretesto, una confessione, un resistere, quasi un
reading clandestino, randagio, senza fissa dimora, fatto di corpi, voci, che va
nei luoghi extra teatrali di Palermo, di casa in casa, illuminandoli con
candele, lampadine tascabili e bellezza. Questo teatro, il suo linguaggio
frammentato e provocatorio, messo poveramente in scena senza mai richiedere
alcun contributo di denaro pubblico, fu definito da Goffredo Fofi, in
sarcastica opposizione al sempre più ingessato e prevedibile teatro “civile” di
quegli anni, teatro “in-civile”.
Nino Gennaro scrive sempre (tra i suoi libri “Una calia al completo” con Nicola di Maio, “La via del sexo”, "Una
divina di Palermo", “Rosso Liberty”) e continua anche durante
la sua malattia: un esercizio manuale che chiama "puntina
spirituale". Libretti di poesie scritti a mano, oltre duemila copie di ”Gioiattiva” e più di trecento di “Tra le righe”, che regala personalmente ad amici e
conoscenti. Quasi un moderno cantastorie che per cartellone espone il proprio
corpo e che, alla fine della recita, lascia dietro sé i suoi “fogli volanti”.
Gennaro, in uno scritto a Marco Palladini, riassume così il
proprio pensiero e la propria poetica: «Tutta la mia vita, tutta la mia
produzione, vogliono dire e dicono dei nostri territori-corpi colonizzati da
fascismi, mafie, clericalismi, oppressioni-repressioni e di lotta senza
quartiere per dis-interiorizzare, non collaborare. Perché il capolavoro di ogni
potere è rendere labile o annullare i confini tra vittima e carnefice, farti
complice del suo dominio, della sua logica di dominio. Mondo di lutto, di
sottomissione, di psicofarmaci, di miseria e di morte. Ripeto, io dico no, a
questa morte…».
Nino Gennaro e Massimo Verdastro |
La malattia ha inizio nel 1987 e in questi suoi ultimi anni Nino
scrive una riflessione ironica ed amara che accomuna il disfacimento di un
pianeta e di un corpo malato; una sorta di diario che chiamerà “Alla fine del Pianeta”. «Prima di andare in un altro
pianeta, bisogna assolutamente raccogliere i ricordi della terra, fissarli
indelebilmente nella nostra memoria/ci dobbiamo preparare per la grande
partenza».
Nino Gennaro a Palermo
Dieci anni dopo la sua scomparsa, l’attore e regista Massimo Verdastro l’ha
ricordato a Palermo con lo spettacolo-omaggio “O si è felici o si è complici”. Nel 2010, invece, il
consiglio comunale di Corleone ha bocciato la proposta di dedicargli il centro
sociale di contrada Santa Lucia ritenendo che la sua è una “figura controversa,
poco conosciuta”. Su venti consiglieri dodici assenti, più il sindaco e i suoi
assessori; degli otto presenti in aula, due hanno votato contro, due si sono
astenuti e quattro hanno votato a favore. Scrive Dino Paternostro su “La
Sicilia” del 14 novembre 2010 che dopo la seduta consiliare, usando dei versi
di una poesia di Gennaro come giustificazione per il rifiuto, il sindaco ha
detto: «Quanto tempo serve a una ghianda per diventare quercia? Il tempo
necessario...».
Scultura per il Premio Nino Gennaro istituito dal Sicilia Queer FilmFest |
«La ghianda
che diventa quercia – ha risposto Maria Di Carlo, compagna di vita di Gennaro – è forse per il
sindaco la scusa pilatesca per rimandare a un dopo in cui questa questione se
la spirugghieranno i prossimi. Per Nino era invece la pazienza di chi sa che bisogna
lavorare senza stancarsi, senza scoraggiarsi mai»
Ma in giro a Corleone, forse gli stessi che erano stati muti e
complici quando Totò Riina aveva espugnato il loro paese terrorizzando e
ammazzando, dicevano che il vero motivo della bocciatura era un altro: Nino
Gennaro era un frocio. E, già che c'erano, anche un drogato e altre schifezze.
Questi sì, veri imperdonabili peccati. Com’è quella cosa che i complici non
sono mai felici?
Il Sicilia Queer
FilmFest di Palermo
quattro anni fa ha istituito il premio Nino Gennaro. Per il ventennale, il
31 maggio 2015, alle
10, alla sala De Seta dei cantieri alla Zisa hanno consegnato
il premio omonimo al filosofo Paul Beatriz Preciado, quinto premiato dopo
Wieland Speck, Eduardo Mendicutti, Vittorio Lingiardi, Ricci/Forte.
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