GIANCARLO DE CATALDO
In occasione dei
centoventi anni dalla nascita riemergono alcune lettere inedite del più
popolare inquilino del Quirinale scritte durante il confino inflitto dal
fascismo a Ponza e a Ventotene
L’immagine che è passata alla Storia, scolpita nel cuore di un’intera
generazione di italiani: l’anziano signore che scatta in piedi al gol di
Tardelli nella finale del mundial spagnolo dell’82, esultando come un
ragazzino, e rivolto a re Juan Carlos, ai suoi vicini, all’universo mondo che
segue in diretta l’evento, agita l’indice e assicura: «Non ci prendono più, non
ci prendono più». Quella sera nelle piazze d’Italia si ballava, si cantava, ci
si tuffava nelle fontane. Ci si sentiva sfrenatamente italiani.
E l’anziano signore, col suo trasporto passionale che rompeva ogni regola
di etichetta, era, a un tempo, il simbolo e il garante di questo spirito
elettrico che ci pervadeva.
Pertini: il nonno di tutti gli italiani. Di Sandro Pertini ricorrono,
domenica prossima, i centoventi anni dalla nascita e per chi conosceva la sua
storia, l’approdo alla figura del vecchino rassicurante aveva qualcosa di
paradossale, se non di riduttivo. Si portava appresso un sentore di melassa, un
“volemose bene” che non aveva niente di pertiniano.
Ma il fatto è che non c’era un solo Pertini, quella sera, nella tribuna
d’onore. C’erano tutti i Sandro Pertini, con le loro vite dure, spericolate,
estreme. C’era il pacifista divenuto suo malgado eroe di guerra. C’era il
giovane avvocato socialista dalla lingua tagliente — “u brichettu”, lo
chiamavano, il cerino, per quanto facilmente s’accendeva — che rompe con il
fratello in camicia nera e poi ne piange la morte. C’era l’organizzatore,
insieme ad Adriano Olivetti, della fuga di Turati in Corsica. C’era l’esule,
imbianchino e comparsa del cinema, che si vende una masseria di famiglia per
impiantare la prima radio libera antifascista d’Europa, costantemente
sorvegliato da spie travestite da fuoriusciti. C’era il condannato dal
Tribunale Speciale che accoglie la sentenza al grido di “viva il
Socialismo!”, si fa quattordici anni fra ergastolo e confino con la pena di
volta in volta rinnovata per ordine personale del Duce,manda a quel paese la
madre che ha osato chiedere la grazia, e anni dopo ammonirà i giovani
magistrati: non credetevi mai esseri superiori perché investiti del potere
di giudicare, ve lo dice un condannato a morte che ha imparato molto più dai
suoi compagni di pena che da chiunque altro. C’era il capo militare
della Resistenza, che contribuì a condannare a morte Mussolini. C’era il
partigiano che aveva coltivato l’idea di una mattanza di gerarchi fascisti e
nazisti in occasione di un raduno al cinema Adriano di Roma: chiuderli dentro e
farli fuori in un colpo solo. Come nei “Bastardi senza gloria” di Quentin
Tarantino. Il partigiano che nella lotta durissima e intransigente contro la
dittatura rinverdiva la tradizione mazziniana del “fatto del pugnale”, convinto
che l’abbattimento del tiranno fosse il primo passo verso la libertà. Regicida,
semmai, non certo terrorista.
C’era il detenuto del braccio della morte di Regina Coeli che evade grazie
alla rete clandestina socialista beffando le SS: mentre quelli li cercavano,
lui e Saragat brindavano alla fuga dall’appartamento del dottor Monaco, il
medico del carcere, partigiano, come sua moglie Marcella. C’era il custode
inflessibile della memoria resistenziale, l’autore dell’incendiario discorso di
Genova contro il congresso dell’Msi. Ci furono scontri, e morti. Pertini fu
accusato di aver aizzato le masse. Rivendicò, senza scomporsi. E oggi molti
storici ritengono che quel discorso abbia di fatto inaugurato la stagione del
centro-sinistra.
C’era il Presidente della Camera che, di fronte allo scandalo dei ministri
pagati dai petrolieri per ottenere leggi di favore, esorta piangendo i giovani
“pretori d’assalto” ad andare avanti senza guardare in faccia a nessu- no,
socialisti inclusi. C’era il combattente che, nei giorni del sequestro Moro,
intima a chi gli è vicino: se dovessero mai prendere me, non trattate. In
nessun caso.
Erano tutti lì al Santiago Bernabeu di Madrid, quella sera. Il nonno era
tutti loro, e tutti loro erano il nonno. Erano tutti lì a esultare, i tanti
Pertini, alla fine di tutte quelle esistenze apparentemente inconciliabili. E
noi, confusamente, noi lo sentivamo.
Sentivamo il nonno, ma anche il partigiano, il lottatore, l’idealista,
l’incorruttibile, il pacifista che sogna di svuotare gli arsenali e
riempire i granai e persino il soldato che riconosce l’ineluttabilità della
violenza. Ci riconoscevamo in tutti loro, e il nonno non era che l’ultima
sintesi.
Eravamo reduci dalla terribile stagione del terrorismo, Pertini, tutti i
Pertini, ci avevano presi per mano quando eravamo a un passo dalla
dissoluzione, ci avevano trascinati fuori dall’oscura “notte della Repubblica”
e ci avevano accompagnati verso il futuro.
Non sapevamo esattamente che cosa ci attendeva. Ma intanto ci
fidavamo.
LA REPUBBLICA, 23 SETTEMBRE 2016
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