MICHELE SERRA
NON SORPRENDE sapere che Salman Rushdie rigetta il concetto di
“scontro di civiltà”; rammentando a noi tutti, sgomenti per la ferocia
jihadista, che “esiste un Islam aperto, raffinato e cosmopolita” (intervista di
Anais Ginori, Repubblica di ieri). Rushdie ha passato metà della sua vita sotto
scorta, condannato a morte, nel 1989, da una fatwa khomeinista per avere
scritto pagine considerate “blasfeme”. Una sua eventuale deriva islamofoba
sarebbe quasi scusabile: dal perseguitato non si può pretendere equanimità nel
giudizio sul persecutore.
Ma Rushdie è, prima di ogni altra cosa, un intellettuale trans-nazionale.
Conosce il mondo, la sua vastità e la sua lussuosa complicazione. Si presume
detesti, di conseguenza, le semplificazioni rozze e belluine che nei
fondamentalismi religiosi trovano lo strumento ideale. È nato nell’Islam ma,
per quanto apostata (si dichiara ateo) ne riconosce la forza culturale e la
molteplicità. Nel frattempo la storia si è incaricata di mettere meglio a fuoco
un dettaglio forse piccolo, ma decisivo. Il libro che gli costò la fatwa si
chiama, come è noto, “I versi satanici”. Il più recente uso dell’aggettivo
satanico è di papa Francesco: “Satanico è uccidere nel nome di Dio”. Francesco
non è un laico: fa il papa. Ulteriore conferma che non è possibile tagliare a
fette la magnifica complicazione del mondo.
La Repubblica, 16 settembre 2016
Nessun commento:
Posta un commento