di LINO BUSCEMI
Domani il 150° anniversario della sommossa Dal Palazzo pretorio e dai
Quattro Canti furono trafugate opere d’arte, carte e suppellettili
DOMANI ricorre il 150° anniversario della cruenta sommossa palermitana
detta del “Sette e mezzo”, appunto perché durò sette giorni e mezzo, dal 16 al
23 settembre 1866. Una massa di oltre trentamila rivoltosi, delusa dalle
promesse e vittima della miseria, mise a soqquadro la città. La repressione fu
sproporzionata e violenta. Il governo proclamò lo stato d’assedio, inviando a
Palermo 40 mila soldati. Fra i militari si contarono più di 200 morti, mentre
non si è mai saputo il numero delle vittime civili (forse oltre tremila). Sono
state arrestate 2.427 persone, di cui 127 condannati. I tragici fatti non
produssero alcun risultato utile per la comunità. Anzi, le condizioni sociali
ed economiche si aggravarono ulteriormente. La rivolta del 1866 è ignorata
dalla quasi totalità dei libri di storia. In città nessuna targa lapide o cippo
ricordano l’evento post-risorgimentale.
Non è superfluo raccontare anche le
tante “ferite” inferte dalle cannonate, dai fucili e dagli incendi al
patrimonio monumentale, storico e edilizio della città. Gli edifici più colpiti
furono il Palazzo Pretorio con l’area circostante (ristrutturati solo nel 1874)
e Palazzo di Rudinì ai Quattro Canti (abitazione privata del sindaco Antonio
Starrabba di Rudinì). La facciata e le finestre del municipio subirono lo
sfregio prodotto dal piombo delle forze contrapposte, mentre alla casa del
sindaco fu appiccato il fuoco con qualche conseguenza. Da entrambe le dimore,
però, vennero trafugate suppellettili, opere d’arte e carte d’archivio.
Nelle improvvisate barricate, erette nelle vie principali, si distinguevano
beni immobili “prelevati” da siti pubblici e privati. Il Palazzo reale, ben
protetto e strapieno di autorità lì rifugiatesi, fu accuratamente risparmiato
dalle cannoniere. Tuttavia “mani interne” fecero sparire pregiati arredamenti,
mai più ritrovati.
L’arcivescovado e la cattedrale furono appena scalfiti dalle armi.
L’anziano cardinal Naselli seppe conquistarsi la simpatia dei rivoltosi e, con
molta riluttanza, quella degli alti comandi militari. Il Castellammare, già
mutilato dalla furia garibaldina del 1860, il Palazzo delle finanze alla marina
e le nuove carceri dell’Ucciardone resistettero all’assedio concentrico delle
parti belligeranti. Qualche scaramuccia si verificò, danneggiando i portoni
d’ingresso e qualche finestra. Danni molto seri, invece, furono inferti
dalle palle dei cannoni delle truppe assedianti al monastero di San Giuliano.
Non si ebbe il tempo di ripararli, in quanto, qualche anno dopo, il sito
religioso venne abbattuto per consentire la costruzione del teatro Massimo.
Peggior sorte toccò alla caserma dei pompieri di via dei Crociferi: con
l’indiscriminato bombardamento del 22 settembre l’edificio quasi scomparve. La
potenza di fuoco, oltre a fare vittime, fiaccò la foga dei rivoluzionari perché
le vie principali si trasformarono in piste delle palle di ferro che, al
passaggio, travolgevano tutto: barricate e abitazioni. Diversi rinomati palazzi
nobiliari furono centrati e, dunque, caddero tetti, balconi e facciate
riccamente rifinite. Per creare disagi i rivoltosi collocarono ai Quattro Canti
un enorme telone, impedendo alle autorità del Palazzo reale di comunicare (con
gli specchi) con le navi ancorate nel porto antistante Porta Felice. In corso
Scinà un migliaio di soldati, dopo avere spazzato via una barricata,
raggiunsero piazza Politeama da un punto della quale attaccarono spietatamente
e con tutti i mezzi Porta Maqueda, fino a comprometterne la stabilità. La porta
oggi non esiste più, anche a causa dei contemporanei lavori di costruzione del
teatro lirico e della sistemazione della piazza circostante.
La
Repubblica-Palermo, 15 settembre 2016
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