UNO PAGAVA da vent’anni, un altro da
dieci. Uno era stato avvicinato da poco, un altro era stato minacciato. Qualcuno
si è presentato spontaneamente ai carabinieri di Monreale, oppure a Addiopizzo.
Qualcuno è stato convocato in caserma, ed è scoppiato in lacrime, ammettendo il
ricatto dei boss. Eccoli, gli otto imprenditori coraggio che per la prima volta
si sono ribellati a Cosa nostra nella sua roccaforte storica, Corleone.
«Persone normali, persone che vogliono solo lavorare», dice Daniele Marannano,
di Addiopizzo. Determinante nella scelta di collaborare la crisi economica, ma
anche la pressione dei boss. Dodici arrestati a Corleone. Manette anche per il
nipote di Provenzano, il boss Carmelo Gariffo.
Gariffo, il segretario, ma anche l’ambasciatore. Gariffo, l’affabile
conversatore. E anche esperto imprenditore. In quello scorcio di inizio anni
Ottanta, Provenzano aveva affidato al nipote prediletto di realizzare la più
grande delle sue intuizioni: costruire il monopolio delle forniture agli
ospedali siciliani attraverso una rete di società. Un affare che già allora
valeva più del traffico di droga e di armi messi insieme.
Eccolo, Carmelo Gariffo, il nipote prediletto che la scorsa notte è tornato
nuovamente in cella. Appena tre anni dopo la scarcerazione. Nel 2007, era stato
incastrato dai pizzini dello zio, che portava in lungo e in largo per la
Sicilia: Gariffo era il numero «123», il latitante Matteo Messina Denaro era
«Alessio ». Adesso, il nipote del padrino morto a luglio, è stato incastrato
dalle intercettazioni. Anche se era prudente. O quasi. Gariffo andava in giro
con l’autista, l’allevatore Bernardo Saporito; l’operaio forestale stagionale
Vincenzo Coscino gli faceva da gregario. Anche loro sono stati arrestati, con
un altro forestale (Vito Biagio Filippello) e un capo cantoniere (Francesco
Scianni). Gariffo andava a trovare il reggente del clan, l’insospettabile
dipendente comunale Antonino Di Marco. E non sospettava che il suo ufficio allo
stadio fosse come il confessionale del Grande fratello.
«Non mi posso muovere», diceva Gariffo. Era consapevole di essere un
osservato speciale. «Primo devo trovare una persona adatta eventualmente a
comandare ». Ovvero, i boss hanno bisogno di una buon paravento. «Non vuol dire
che noialtri le cose non le dobbiamo fare - spiegava a Di Marco - dobbiamo
cercare di vedere come risolvere la situazione. Non facciamo cose affrettate».
È la filosofia della vecchia mafia che torna dal carcere. Mafia in difficoltà. «Non
sono il solo ad avere bisogno - diceva - il primo iniziando da mio zio, e mio
zio certe cose non se le merita». Lo zio Provenzano e la sua famiglia, tempi di
ristrettezze economiche per tutti. «Bisogna mettere ordine - insisteva Gariffo
- quando in una casa c’è il caos, non sai da dove iniziare prima». La casa
è il clan, retto da un altro vecchio boss, Rosario Lo Bue, che teneva per sé i
soldi della cassa. Uno scontro nella fazione dello «zio». Di Marco puntava a un coinvolgimento
di Angelo Provenzano, il figlio di Bernardo. Gariffo frenava: «Mentre c’è stato
mio zio era giusto che i suoi figli si stavano a loro posto, e devono stare a
posto loro, perché basta uno no cento».
«Uno», ovvero Gariffo, che rivendicava il ruolo di interprete dell’ortodossia
provenzaniana. E cercava di darsi una parvenza di legalità. Puntava ad essere
assunto in un’azienda che stava realizzando un campo polivalente. «Un modo per
imporre un’estorsione, ma anche per attestare il suo reinserimento sociale »,
spiega Pietro Sutera, il comandante del gruppo Monreale. Dell’assunzione di
Gariffo, Di Marco aveva parlato con l’assessore Cirò Schirò. Che faceva capire
di averne parlato con «Lea», la sindaca Savona. Mi ha detto: «Devo parlarne con
l’assistente sociale». Il boss Di Marco insisteva: «Ciro, ce li giochiamo tutti
questi voi». Poi la sindaca si rivolse ai carabinieri. Non è bastato per
evitare lo scioglimento.
s.p.
1 commento:
e che c'entra la DC?
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