L'omicido Dalla Chiesa |
A Corleone, nel 2012, è stata scoperta
una targa dedicata a Carlo Alberto Dalla Chiesa, nella stessa caserma da lui
diretta dal 3 settembre 1949 fino al 22 giugno 1950. Si può dire, infatti, che
l’impegno antimafia, in “trincea”, dell’allora giovane capitano dei carabinieri
cominciò proprio a Corleone, quando volontariamente scelse di dirigere il Gruppo
Squadriglie Carabinieri della città. A Corleone rimase poco più di nove mesi,
ma in un così breve lasso di tempo riuscì lo stesso ad individuare ed
incriminare gli assassini del segretario della Camera del lavoro, Placido Rizzotto,
che la mafia aveva assassinato il 10 marzo 1948. Prima arrestò Pasquale
Criscione e Vincenzo Collura, che confessarono il delitto, rivelando che il
cadavere del sindacalista era stato buttato da Luciano Liggio in una foiba di
Rocca Busambra, «affinché non venisse trovato mai più». Poi denunciò per la
prima volta Liggio, giovanissimo ma già il più feroce killer della cosca
mafiosa capeggiata dal dott. Michele Navarra.
Nel 1982,
subito dopo l’assassinio di Pio La Torre, segretario regionale delò Pci, da lui
conosciuto fin dagli anni ’40 a Corleone, fu nominato prefetto e mandato a
Palermo. «Si
uccide il potente quando è diventato troppo pericoloso, ma... se è vero che
esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue
Istituzioni e delle sue Leggi. Non possiamo oltre delegare questo potere né ai
prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti». Fu questo il “biglietto da
visita” con cui Carlo Alberto Dalla Chiesa si presentò a Palermo il 30 aprile
del 1982. Dalla Chiesa era il nuovo prefetto, mandato dallo Stato per alzare il
livello del contrasto alla criminalità mafiosa. O meglio, era questa la
convinzione dell’ex generale, che aveva sconfitto le Brigate Rosse e, perciò,
pensava di godere di tanto credito istituzionale. E cominciò ad aspettare quei
poteri speciali per coordinare la lotta contro la mafia, che non arriveranno
mai. Non si perse d’animo e, il 10 agosto 1982, nella famosa intervista a
“Repubblica”, lanciò il suo manifesto programmatico. «Ho capito una cosa, molto
semplice ma forse decisiva – disse al giornalista Giorgio Bocca -: gran parte
delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini
non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo
questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati». Poi
fece una considerazione che fu quasi un presagio: «Credo di aver capito la
nuova regola del
gioco: si uccide il potente quando
avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può
uccidere perché è isolato».
A Ficuzza, il 20 agosto 1982, Dalla Chiesa
tenne il suo ultimo discorso pubblico. Quel giorno, volle commemorare uno dei
suoi più fidati collaboratori, il colonnello Giuseppe Russo, che i “corleonesi”
avevano assassinato il 20 agosto 1977. La sua presenza nella “tana del serpente”
volle avere il significato di una sfida ai “corleonesi” nel loro stesso
“regno”. Con voce alta e chiara, Carlo Alberto Dalla Chiesa gridò tre volte
«Vigliacchi!» ai killer di Russo. Poi tornò a chiedere i poteri speciali al
ministro degli interni Virginio Rognoni, che era con lui sul palco. Ma si capì
che il prefetto era davvero solo. Il 3 settembre 1982, intorno alle 21.15, la
A112 bianca sulla quale viaggiava Dalla Chiesa, guidata dalla moglie Emanuela
Setti Carraro, fu affiancata, in via Isidoro Carini, a Palermo, da una Bmw con
a bordo i killer mafiosi Antonino Madonia e Calogero Ganci. Madonia sparò numerosi
colpi con un fucile automatico AK-47. Nel disperato tentativo di farle da
scudo, Dalla Chiesa si buttò col suo corpo sulla moglie. Ma i proiettili lunghi
10 centimetri spazzarono via entrambi. Contemporaneamente, l’auto con a bordo
l’autista e agente di scorta, Domenico Russo, che seguiva la vettura del prefetto,
venne affiancata da una motocicletta guidata da Pino Greco “Scarpuzzedda”, che
lo freddò all’istante. «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti»,
scrisse una mano anonima sul luogo del delitto. Ma non fu così. Sull’onda
dell’emozione, il Parlamento approvò la legge La Torre-Rognoni, che costituì
una vera e propria svolta nella lotta alle mafie.
D. P.
Nessun commento:
Posta un commento