di SALVO PALAZZOLO
A Corleone, otto imprenditori ammettono di aver pagato il pizzo. Una scelta
senza precedenti nella terra in cui hanno continuato a comandare gli eredi di
Totò Riina e Bernardo Provenzano, il primo è al carcere duro dal 1993, l’altro
è morto in cella il 13 luglio scorso. Le parole di chi non vuole più sottostare
alla legge del racket hanno fatto scattare un blitz: all’alba, i carabinieri del gruppo di Monreale e della
compagnia di Corleone hanno arrestato 12 persone, sono i nuovi boss di
Corleone, questo dicono le indagini dei sostituti procuratori Sergio Demontis,
Caterina Malagoli, Gaspare Spedale e dell’aggiunto Leo Agueci. Il nome più
autorevole fra gli arrestati è quello di Carmelo Gariffo, il nipote prediletto
di Provenzano.
«Se prima si aprivano quattro occhi, ora se ne devono aprire otto»,
sentenzia un vecchio boss di Corleone, Carmelo Gariffo, il nipote prediletto di
Bernardo Provenzano. La Cosa nostra che ha segnato una luna stagione di sangue
e complicità è in crisi. Per le indagini e gli arresti. È soprattutto crisi
economica. «Una volta si respirava un’aria diversa», ammette il padrino
tornato in libertà da tre anni.
Ma è una mafia che fa ancora paura sul
territorio. Lo dicono le indagini che hanno portato allo scioglimento del
Comune di Corleone per mafia, ad agosto: il gruppo legato a Provenzano controllava
gli appalti per la gestione dei rifiuti e per la riscossione dei tributi. Ora,
le intercettazioni dei carabinieri svelano che il clan di Corleone
continuava a imporre estorsioni agli imprenditori che si sono aggiudicati
lavori piccoli e grandi fra Palazzo Adriano, Contessa Entellina e Corleone. E
alcuni di loro, otto, hanno deciso di rompere il muro della paura e
dell’omertà.
Uno si è presentato spontaneamente ai carabinieri, un altro ad Addiopizzo.
Entrambi erano stanchi di subire da vent’anni i ricatti del pizzo. Si sono
fatti avanti dopo un attentato in cantiere. «La crisi economica è ormai
tanta - ha messo a verbale una delle vittime - la tassa mafiosa non è più
sostenibile». Un altro imprenditore ha precisato: «Ho ancora tanta paura, ma è
venuto il momento di cambiare vita». Tutti gli altri sono stati convocati in
caserma, e messi davanti all’evidenza delle intercettazioni hanno ammesso di
aver pagato. Qualcuno, in lacri- me.
«Sono persone normali, persone che vogliono solo lavorare», dice Daniele Marannano,
di Addiopizzo. «Il loro gesto è un messaggio forte per tutti gli altri
operatori economici della provincia e della città che ancora continuano a
pagare». In queste ultime settimane, il muro dell’omertà si sta sgretolando in
diverse zone franche. Dal Borgo Vecchio, il cuore di Palermo, alla provincia.
Dice il colonnello Giuseppe De Riggi, il comandante provinciale dei
carabinieri: «L’organizzazione mafiosa continua ad alzare barriere che sembrano
impenetrabili, punta a controllare un intero territorio in modo esclusivo. Ma
le indagini e le risposte positive arrivate dagli imprenditori superano tutte
le barriere». Una strada non facile, che si può ripercorrere negli ultimi
racconti del riscatto.
«Io l’esattore del pizzo l’ho incontrato al Comune - racconta un
imprenditore dove ero andato a risolvere alcuni problemi ». Il boss del pizzo
era il dipendente comunale Antonino Di Marco, già arrestato nei mesi scorsi.
«Si rendeva disponibile per problematiche di qualsiasi tipo. Una volta, con la
scusa di offrirmi un caffè, mi portò in un sottoscala del Comune. Mi disse:
vedi che qua ci sono io, per qualsiasi cosa, però vedi... E mentre diceva
queste cose mi faceva il segno dei soldi fregando le dita. Proseguì: per tutto
Corleone, comando io, tutto quello che c’è ci sono io. Impaurito, e preso alla
sprovvista, risposi che qualche regalo avrei potuto farlo, senza eccedere». I
primi 5000 euro. Poi, altri 5.000. Intanto, i boss si organizzavano, per
cercare di scansare le indagini.
Le intercettazioni hanno registrato il manifesto programmatico della mafia
del racket. «Devono tremare tutti», dicevano. «Dobbiamo bussare» e poi «dare
una lezione». Gariffo, prima di tutti gli altri, aveva già capito che «l’aria
era davvero cambiata». Ed era il fautore di un pizzo meno soffocante per gli
imprenditori, già alle prese con la crisi e le tasse. «Prima dobbiamo prendere
tutte le informazioni possibili», consigliava. Per prudenza. «Poi, dobbiamo
essere intelligenti». Cosa vuole dire essere «intelligenti» per un mafioso di
questi tempi? Gariffo lo spiega chiaramente: «Appena tu chiami a uno e lo
stringi, gli dici tu devi portare le cose... appena tu lo lasci stare... puoi
andarti a fare la valigia a casa». Ovvero, aspettare l’arrivo delle forze
dell’ordine. Meglio chiedere con garbo il pizzo.
La Repubblica – Palermo, 28 settembre 2016
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