di JOSHUA EVANGELISTA
Sporchi, "tristi, straccioni". Così i giornali
dell'epoca definivano gli immigrati piemontesi e toscani che ogni anno venivano
impiegati a cottimo per raccogliere il sale in Camargue. Fino a quando, il 17
agosto del 1893, al grido di "Viva l'anarchia, morte agli italiani",
una folla di francesi non li inseguì per cacciarli. Perché "rubavano
lavoro". Ne uccisero dieci, e ferirono centinaia
Sodol Colombini stringe tra le mani il cappello di panama mentre
guarda il sole infrangersi nell'acqua che circonda le piramidi di sale: non
riesce a mandarlo via, quel sale, nemmeno dopo essere andato in pensione. Una
vita passata nella Camargue, la sua, tra sabbia e paludi, a seguire tutta la
filiera della lavorazione dell'oro bianco di Aigues-Mortes. Intervallata da dodici anni, dal 1977 al
1987, in cui è stato sindaco della sua città, sempre dalla parte dei colleghi
operai, compagni di mille lotte sindacali.
È proprio agli inizi della sua esperienza da primo cittadino che
Sodol, figlio a sua volta di operai antifascisti di chiara origine italiana,
scopre che le mura della sua città nascondono un segreto, di quelli che «si
sussurrano a bassa voce, per non farsi sentire dai bambini». Quando il circolo
anziani della cittadina provenzale gli chiede il patrocinio su un convegno
sugli eventi, Colombini scopre che a Aigues-Mortes, nel 1893, era stato
perpetuato un pogrom,
un massacro xenofobo,per qualcuno addirittura “il peggiore della
storia della Francia contemporanea”.
Tra il 16 e il 17 agosto del 1893, al grido di “Viva l'anarchia”,
i nonni dei suoi concittadini si erano organizzati e avevano deliberatamente deciso di uccidere gli operai italiani stagionali
assunti nelle saline, rei di
rubare il lavoro e di accettare le condizioni penalizzanti dei padroni.
Fu durante gli anni di Colombini sindaco che una delle pagine più
brutte della storia operaia europea emerse dall'oblio, grazie a una serie di ricerche condotte da storici italiani e francesi. Un lavoro non facile, visto che gli ultimi testimoni dell'eccidio
erano morti negli anni '50 e con loro il ricordo della strage, sconosciuta
anche agli immigrati italiani di seconda e terza generazione, come lo stesso
Colombini.
Eppure a fine Ottocento i fatti di Aigues-Mortes avevano aperto
una profondissima crisi diplomatica tra Francia e Italia; Edoardo Scarfoglio sul Mattino aveva invocato una guerra ai
francesi e nella penisola le voci
sul massacro avevano condotto a manifestazioni
di massa a Genova, Milano, Roma e a Napoli, dove migliaia di insorti si
erano scontrati con i bersaglieri.
Poi, complici le due guerre mondiali e una nuova ondata migratoria
dall'Italia, il silenzio. Secondo
l'economista e filosofo Serge Latouche, padre della teoria sulla decrescita
felice e profondo conoscitore dei processi di occidentalizzazione del secolo
scorso, i governi ebbero tutto l'interesse, ad un certo punto, a insabbiare una
vicenda pruriginosa di questo genere. «Abbiamo preferito, noi francesi e voi
italiani, riscrivere una storia alternativa fatta di amicizia e fratellanza, un
modo per condividere lo 'sfruttamento' verso il resto del mondo».
LA PSICOSI DELL'INVASIONE
Come si arrivò, tra il 16 e il 17 agosto 1893, all'uccisione di dieci italiani (di cui nove identificati) oltre a
un numero sproporzionato di feriti e a un controesodo di centinaia di operai e
famiglie italiane? Aigues-Mortes
a fine Ottocento è una città povera e dall'economia sonnolenta. Si anima solo
ad agosto durante la raccolta del sale quando vengono assunti 1500 stagionali dalla Compagnie des Salins du Midi. Oltre ai locali ci sono i trimards, lavoratori senza fissa dimora, spesso
pregiudicati e circa 600
italiani, per lo più piemontesi e toscani, quasi sempre ingaggiati tramite caporali che operano oltre
confine.
Il clima è teso, del resto nel paese si vive la psicosi dell'invasione. La stampa francese
ripete strenuamente che la manodopera
italiana “toglie il pane dalla bocca” e alla paura di perdere posti di lavoro e spazio nell'economia
nazionale si aggiungono ritratti razzisti degli italiani che “sono sporchi, tristi, straccioni, e formano intere tribù che emigrano verso il Nord, dove le
campagne sono ben coltivate, dove si mangia, si beve, si è felici” (La Patrie,
3 agosto 1896). I giornali parlano di un'invasione silenziosa e della minaccia
che la patria venga “sommersa” (L'invasion pacifique de la France par les
étrangers, Marchal-Lafontaine).
L'atmosfera nelle saline non è diversa dal quadro dipinto dai
giornali. C'è nervosismo, italiani e francesi non si integrano, le quasi 90 mila tonnellate di sale devono essere portate via in breve
tempo per evitare che arrivi la
pioggia e le sciolga. I ritmi sono massacranti e la retribuzione a cottimo premia gli operai italiani, più robusti
e abituati ai lavori duri.È un'estate torrida, si dorme in baracche
insalubri, con il rischio di contrarre la malaria e con poca disponibilità di
acqua potabile.
I FATTI
Secondo gli storici potrebbe essere proprio l'acqua uno dei futili
motivi che hanno portato alla caccia all'italiano. Il giorno prima del
massacri, durante una pausa dal lavoro, un torinese avrebbe lavato il suo
fazzoletto pieno di sale nella tinozza contenente l'acqua dolce. La reazione
dei francesi sarebbe stata violenta, il torinese avrebbe quindi ferito con un
coltello uno degli aggressori.
Si susseguono scontri e ripicche tra italiani e francesi, gira
voce che ci sono morti (falso), interviene il magistrato e riporta la calma. Ma
è solo momentanea, in città il passaparola è iniziato, c'è la convinzione che
gli italiani abbiano ucciso dei francesi. L'eccitazione non è più
controllabile, c'è voglia di impartire una lezione ai "maledetti
italiani". Itrimards che non hanno trovato lavoro e altri cittadini
scendono per le strade. “Viva l'anarchia! Morte agli Italiani”, riecheggia tra
i vicoli del centro di Aigues-Mortes. Trimards e cittadini, circa cinquecento,
muniti di randelli seguono il pubblico banditore, che annuncia la “caccia
all'orso”.
Gli italiani cercano rifugio dove possono, persino nella questura
e nelle carceri cittadine. Si contraddistinguono dei “giusti”, che salvano
molti degli assaliti da morte certa. Come il parroco Mauger, che accoglie gli
italiani nella sua abitazione privata, o la signora Fontaine, proprietaria di
una panetteria, che fa barricare gli assaliti nel suo negozio e con loro
resiste eroicamente all'assedio e ai tentativi d'incendio per oltre 27 ore.
Al mattino la situazione degenera. I rivoltosi si dirigono vero le
saline Peccais, dove è maggiore la concentrazione degli stagionali stranieri.
Il capitano della gendarmeria si impegna pubblicamente per l'espulsione degli
italiani. L'obiettivo è quello di scortarli fino alla stazione locale e
mandarli via con il primo treno. Ma la scorta delle forze armate fallisce e il
massacro ha inizio.
Un sopravvissuto racconterà: «Tutta questa gente si è avventata
contro di noi e ci gettava pietre. Ho anche sentito parecchie fucilate (...) la
folla ci ha travolto. Siamo fuggiti da ogni lato; ci inseguivano come fossimo
un gregge di pecore; io sono stato buttato nel canale con alcuni compagni. I
francesi si erano piazzati dall’altro lato del canale, tra le vigne, e quando
tentavamo di uscire, le pietre ci cadevano in testa come neve».
TUTTI ASSOLTI
L'esercito, chiamato all'alba dal prefetto, non arriva prima delle
sei di pomeriggio del 17 agosto. Perché questo ritardo? È difficile dirlo,
sappiamo però che è funzionale all'insabbiamento delle responsabilità. Lo
scrittore Enzo Barnabà (il massacro degli Italiani, Infinito Edizioni), che sin
dagli anni '70 ha studiato approfonditamente i documenti ufficiali e le
testimonianze dell'epoca, non ha dubbi: all'Italia bastava un capro espiatorio,
facilmente individuato nella figura del sindaco.
«Il governo italiano chiese la sua testa, e i francesi gliela
consegnarono senza problemi. I veri responsabili, come il prefetto o il
generale che non ha dato l'ordine di intervenire, la fecero franca, non
interessò a nessuno fare un'inchiesta che appurasse le vere colpe». Le stampe
di entrambi i paesi strumentalizzarono a loro piacimento il massacro e il
processo, che assunse inevitabilmente una dimensione politica e si concluse con
l'assoluzione di tutti i 17 imputati che erano stati rinviati a giudizio.
Come se non bastasse, il governo francese pretese che nel calcolo
degli indennizzi alle famiglie delle vittime venisse considerato il principio
di reciprocità, dal momento che gli italiani erano scesi in piazza attaccando i
palazzi francesi delle grandi città della penisola. Il danno per la morte dei
lavoratori fu equiparato a quello di qualche vetrina distrutta. La reazione
italiana? «Una certa Italia si lavò le mani. Crispi cavalcò l'ondata
nazionalistica che scosse il paese appena giunsero le prime notizie, poi una
volta giunto al potere, lasciò perdere», spiega Barnabà.
UN MASSACRO “DI SINISTRA”
Fa un certo effetto sapere che l'eccidio di Aigues-Mortes avvenne
ad appena tre giorni di distanza dalla conclusione dei lavori del Congresso di
Zurigo della Seconda internazionale socialista, per giunta perpetuato inneggiando
l'anarchia e i suoi eroi. «Amara e feroce ironia», la definì il filosofo
marxista Antonio Labriola. Secondo la stampa conservatrice di allora, “il
massacro smentì le chiacchiere internazionaliste”. «Eppure quella era una vera
sinistra, con un vero progetto internazionale, al contrario di oggi», spiega
Serge Latouche.
«Tuttavia faceva i conti con una grande contraddizione che a
distanza di oltre un secolo non è riuscita a risolvere: la concorrenza tra i
lavoratori di diversi paesi. Anzi, con la globalizzazione è dieci volte più
forte. Se dieci italiani sono morti a Aigues-Mortes, quanti sono i migranti
uccisi oggi dallo sfruttamento del lavoro?». Secondo Barnabà «l’eccidio di
Aigues-Mortes ci ricorda come l’integrazione dell’immigrazione italiana nel tessuto
sociale francese, contrariamente all’immagine che spesso ne ha, sia stata
tutt’altro che indolore e come la xenofobia che ha colpito le successive ondate
migratorie non sia nata dal nulla».
Nel frattempo Aigues-Mortes è diventata una tappa importante degli
itinerari turistici provenzali e un trenino accompagna cinque volte al giorno i
visitatori nei suggestivi sentieri che attraversano le acque rosa delle saline.
Proprio dove circa 120 anni fa un piccolo numero di gendarmi in preda al panico
non riusciva a proteggere i lavoratori italiani da piogge di sassi e
proiettili.
Ma i turisti non lo sanno. Per questo, anche da pensionato, Sodol Colombini continua il suo impegno civile per i diritti dei lavoratori delle saline e per ripristinare la memoria storica del massacro: a breve una targa commemorativa verrà posta nei pressi dell'ex panificio Fontaine. Sarà il primo segno tangibile del ricordo di quei due giorni di follia di massa. Di cui si continua a non voler parlare. Ce lo fanno capire chiaramente gli addetti del museo cittadino. Quale "massacre des Italiens"?
Ma i turisti non lo sanno. Per questo, anche da pensionato, Sodol Colombini continua il suo impegno civile per i diritti dei lavoratori delle saline e per ripristinare la memoria storica del massacro: a breve una targa commemorativa verrà posta nei pressi dell'ex panificio Fontaine. Sarà il primo segno tangibile del ricordo di quei due giorni di follia di massa. Di cui si continua a non voler parlare. Ce lo fanno capire chiaramente gli addetti del museo cittadino. Quale "massacre des Italiens"?
L’Espresso, 16 agosto 2016
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