di PASQUALE HAMEL
Correva l’anno 1863, a Palermo capitale del Regno fino al 1817 e da
due anni capoluogo di una provincia del proclamato Regno d’Italia, andava
in scena un’opera teatrale nuova che registrò un immediato successo di
pubblico. Si trattava del dramma “I mafiusi de la vicaria”, scritto da un
capocomico, Giuseppe Rizzotto, con la consulenza del maestro elementare Gaspare
Mosca. L’opera dialettale era ambientata nelle Grandi Prigioni del capoluogo
isolano. Strutturalmente, si trattava dell’assemblaggio e della
rielaborazione di singole scene, o quadri, dello stesso Rizzotto, che già
venivano rappresentate “nelle strade o nei teatrini popolari o ultrapopolari di
Palermo” e che ora, grazie alla sapiente consulenza del maestro Gaspare Mosca,
divenivano un dramma organico. Il successo che arrise all’opera, come si è detto, fu notevole. Tanto che
non si fermò agli anni immediatamente successivi alla prima rappresentazione ma
perdurò nel tempo al punto che, abbiamo notizie, ancora nel 1875, nella sola
Palermo, si ebbero fino a trecento repliche. A favorirlo era anche il fatto
che, a livello di opinione pubblica, si andava manifestando un interesse sempre
crescente sui fatti di mafia e sui soggetti presunti mafiosi.
Sorprende ancora che quel successo non si circoscrisse alla città di
Palermo, dove era ambientato, ma che varcò perfino i confini dell’isola per
essere messo in scena nelle più importanti città italiane. Nonostante fosse
un’opera dialettale destò, infatti, interesse in tutto il Regno attirando
fior di spettatori e, fra essi, personaggi illustri fra i quali come il
principe ereditario, Umberto di Savoia, che assistette allo spettacolo in un
teatro di Napoli.
Il dramma portava in scena per la prima volta il fenomeno mafioso. E lo
faceva, nonostante l’opera risentisse di un certo taglio infantile, sforzandosi
di definirlo anche in termini compiuti. Si trattava inoltre di un’opera
abbastanza informata sul fenomeno criminale visto che il Mosca aveva avuto
notizie di prima mano sugli usi e consuetudini della “Vicaria” di Palermo
attraverso le confidenze ricevute da tale Gioacchino D’Angelo, un capo
camorrista che vi aveva trascorso qualche anno di reclusione.
Se il testo non ci dà un’idea completa di che cosa sia la “mafia”, ci
offre, però, un profilo abbastanza puntuale del mafioso. Il mafioso
nell’opera è, infatti, un delinquente, d’estrazione popolare, arrogante e
volgare, appartenente ad una consorteria modellata su quella camorristica
napoletana.
Per Rizzotto, l’interessante è infatti rappresentare sulla scena la
mentalità, i costumi, le consuetudini e abitudini di vita e perfino il gergo
che permettono di distinguere ed indicare un individuo come, appunto, mafioso.
Del mafioso lo interessava, e non poteva essere altrimenti visto che si
trattava di un’opera teatrale che doveva cogliere l’interesse e l’attenzione
del pubblico, soprattutto l’aspetto scenico e teatrale.
Disegnando il suo profilo del mafioso,
Rizzotto, forse involontariamente, compie però un’operazione pedagogica, spesso
sottovalutata e pionieristica per quel tempo che, come scrive Giovanni
Tessitore, è quella “di far nascere nello spettatore un sentimento di
avversione per quel modus vivendi”.
Ma “I mafiosi della Vicaria”, al di là del valore teatrale, non certo
letterariamente alto, ebbe un ulteriore merito: quello di avere portato alla
ribalta della cronaca il termine “mafia”. Un’organizzazione criminale tipica
della realtà isolana che già all’inizio dell’ottocento, come dimostrano
documenti (interessante soprattutto la relazione del procuratore di Trapani
Calà Ulloa del 1839) di funzionari del regno borbonico, cominciava ad assumere
quei caratteri specifici che conosciamo. Non che il termine “mafia” non fosse
prima conosciuto perché, invece, lo era, ma quel termine antico, che, secondo
il Pitré, indicava bellezza o prestanza fisica, dava al mafioso una
connotazione positiva, l’equivalente di una sorta di Robin Hood, benevolo verso
i poveri e terribile verso i ricchi. Il merito di Giuseppe Rizzotto, attraverso
il suo dramma, è di averlo riportato, forse senza che di ciò l’autore se ne
rendesse conto, alla nuda realtà, alla spregevolezza di cui si connota l’agire
mafioso.
Interessante poi, come ha rilevato lo storico Gaetano Falzone, è che “I
mafiusi de la Vicaria” insinua, anche questa anticipatrice, un’intuizione. E cioè
che l’abbinamento di “mafia e politica non è mai di alleanza contingente ma
risiede nella natura dell’ambiente, dell’individuo, delle grandi e piccole cose
che fanno la vita siciliana di ogni giorno.”
In altre parole, I mafiusi de la Vicaria fu, probabilmente, la prima
denunzia pubblica della mafia, per lo meno sul piano culturale. Facendo
conoscere al grande pubblico i veri aspetti della mentalità del mafioso quale
personaggio negativo: in questo senso, fu vero e grande teatro.
Nessun commento:
Posta un commento