La copertina del libro di Vera Pegna |
Il 7 agosto a Caccamo la Cgil ricorderà il dirigente sindacale Filippo Intili, assassinato dalla mafia nel 1952, 64 anni fa. Per capire la Caccamo di quegli anni, pubblichiamo la recensione al libro di Vera Pegna, che rappresenta una straordinaria testimonianza di impegno e di lotta... (dp)
di SALVATORE COCCOLUTOIl 26 marzo è uscito "Tempo di lupi e di comunisti", il libro dell'ex militante del
PCI che sfidò la mafia nel piccolo centro siciliano di Caccamo, feudo nelle
mani del boss Peppino Panzeca colluso col potere al punto da avere una poltrona
accanto al sindaco. Riuscì a ricostruire un'opposizione e a sfidare il
capomafia costringendolo alla latitanza
Una storia
di coraggio e passione civile che risale al tempo in cui
fare politica era soprattutto missione. Così la viveva Vera Pegna,
una militante del PCI che nel 1962, a 28 anni, si ritrovò a Caccamo, in provincia
di Palermo, a sfidare il potere mafioso. Ai tempi il paesino era
nelle mani del boss Peppino Panzeca, che aveva addirittura una poltrona
riservata in consiglio comunale. Vera fece irruzione nella vita di questo
piccolo centro, provando a scuotere le coscienze e a scalfire il muro
di paure e silenzi. Questa esperienza la racconta nel libro Tempo
di lupi e di comunisti – La storia mitica della ragazza che
sfidò la mafia (Il Saggiatore), in uscita il 26 marzo. Dopo esser
cresciuta in Egitto e aver studiato tra Svizzera e Inghilterra, si traferì in
Sicilia per conoscere e collaborare con Danilo Dolci, attivista
soprannominato il “Gandhi italiano” per le sue lotte sociali non violente. La
donna si stabilì prima a Partinico e poi a Palma di Montechiaro. Poi si
iscrisse al PCI e i primi di aprile del 1962 il partito la inviò a Caccamo per
creare un’opposizione alla Democrazia Cristiana locale, fortemente collusa con
il potere mafioso. Al suo arrivo un militante l’accolse con queste parole che
non lasciavano speranza: “Cara compagna, qui tu sei nella Repubblica di
Caccamo. […] Qui a Caccamo non c’è niente da fare. Qui a Caccamo c’è mafia. Qui
a Caccamo c’è don Peppino Panzeca, che è il capo di tutta la mafia. E c’è
l’amico del card. Ruffini, don Teotista Panzeca, che è il vero cervello della
mafia. Qui a Caccamo è la Repubblica della mafia. Non c’è niente da fare”.
Chi aveva
provato ad opporsi al potere mafioso in paese, infatti, non era andato lontano.
Il contadino comunista Filippo Intili, per esempio, nel 1952 era
stato ucciso a colpi di accetta solo per aver richiesto che il
prodotto dei campi venisse spartito secondo la legge Gullo, ovvero 60% al mezzadro e
40% al proprietario. A Caccamo, invece, la mafia imponeva che il prodotto fosse
diviso al 50%. La donna non si fece intimorire da queste storie e dal clima
ostile che percepiva intorno a sé. Rivitalizzò la sezione e insieme agli altri
militanti cominciò a dimostrare alla gente del paese che era arrivato il
momento di alzare la testa. “Ero così indignata da ciò che vedevo a
Caccamo, dalla povertà e l’indigenza più totale, che non riuscivo ad aver paura -
racconta Vera a FQ Magazine - Certo, in me c’era una
buona dose d’incoscienza”. Decise di presentare la lista del PCI e di
lanciare la sfida alla mafia. Prima di un’assemblea, vedendo Panzeca seduto ad
ascoltare, Vera prese il microfono e disse: “Prova, prova, per don Peppino.
Se rimane seduto davanti a noi, allora è vero che è un mafioso; e se è così,
allora gli chiedo di alzare gli occhi e sorridere che gli voglio fare la
fotografia”. Il capomafia si rifugiò in una macelleria, uscendo poi
dal retro. La donna continuò la campagna elettorale seguendo la linea della
sfida senza paura. E alla fine le votazioni diedero un verdetto sorprendente:
la totale egemonia della DC era finita, vennero eletti quattro consiglieri del
PCI, uno dell’Unione siciliana cristiano sociale e tre delle destre. I
comunisti entravano per la prima volta al consiglio comunale.
Il giorno
della prima assemblea, la Pegna arrivò in Comune insieme ai compagni eletti e
si sedette sulla sedia in pelle riservata a don Peppino. Scese il silenzio
nella sala. Dopo qualche minuto di panico, arrivò il messo a portare via la
poltroncina tra gli applausi dei presenti. Nonostante intimidazioni,
avvertimenti e sabotaggi, la donna cercò di far rispettare le norme e di
ristabilire la legalità in paese. Fu la strage di Ciaculli, il sanguinario
attentato avvenuto il 30 giugno 1963 nell’ambito della guerra di mafia, a
chiarirle quanto era stata importante e coraggiosa la loro battaglia: dalle
indagini della Polizia sull’accaduto emerse che Giuseppe Panzeca non
era un semplice boss di paese, ma il presidente del “tribunale della mafia”.
Denunciato per associazione a delinquere dalle autorità, si diede alla
latitanza. A Caccamo, però, la fuga del capomafia ebbe effetti contrastanti. “C’era
immobilismo e paura – continua Vera -In sezione ci fu parecchio
sgomento per questa reazione della gente. Poi nel 1964 decisi di andar via per
diversi motivi, su tutti avevo compreso che il partito non era più con noi.
Purtroppo da soli non potevamo fare tanto”.
Vera ha
raccontata la sua vicenda per la prima volta nel 1992 nel libro omonimo
pubblicato dalla casa editrice Luna. Ha deciso di riproporla nel testo in
uscita il 26 marzo, integrandola con una seconda parte in cui narra il suo
ritorno a Caccamo nel 2012 e le successive visite in paese, dove il suo
coraggio non è stato dimenticato ed è ancora d’esempio. “Mi hanno contattato
tramite Facebook alcuni giovani tra i 25 e i 40 anni che avevano preso in mano
un circolo del PD e quello di ‘Caccamo Domani’ - continua Vera, oggi
combattiva signora ottantenne - Queste persone volevano fare antimafia,
ma desideravano raccontare le storie di chi l’aveva fatta prima di loro”. Al
suo ritorno a Caccamo ha trovato una realtà giovanile che affronta apertamente
il problema della malavita nella zona. Anche se, secondo la Pegna, questi
ragazzi dovrebbero superare una “visione verticistica della politica
che vuole l’amministrazione comunale come unico interlocutore e il municipio
come unico luogo dove si fa politica”, organizzando iniziative
spontanee intorno a obiettivi comuni legati al territorio. Prendere posizione,
per esempio, su problemi concreti come le pale eoliche che deturpano il
paesaggio di una delle contrade più belle. Tra gli anziani, invece, ha
notato ancora una certa reticenza a parlare di mafia. “Quando ho fatto
domande mi hanno detto che ero troppo curiosa. E quando ho parlato con qualcuno
delle battaglie del sindaco nel contrasto all’illegalità, un anziano mi ha
risposto: ‘Il sindaco è un morto che cammina’”.
Il Fatto Quotidiano | 27 aprile 2015
Nessun commento:
Posta un commento