Una foto segnaletica di Bernardo Provenzano giovane |
di
GABRIELE
RUGGIERILUISA
SANTANGELO
CRONACA – Lo storico di Cosa nostra Salvatore
Lupo e il direttore del Centro studi Peppino Impastato descrivono 'Zu Binnu, morto a 83 anni dopo
una latitanza da record e un decennio al 41bis. Autore di stragi e
protagonista di una stagione finita. «Un personaggio di una cattiva
letteratura», capace di andare «fuori dagli schemi»
«Non
so se fosse un simbolo, di sicuro era un uomo completamente
andato di testa». Quarantatré anni di
latitanza,
dieci di carcere duro in regime di 41bis, una parte dei quali
in isolamento. Bernardo Provenzano, ritenuto il capo di Cosa nostra dal
1993 fino al suo arresto - nel 2006 - è morto a 83 anni. Dopo aver trascorso
più della metà della sua vita scappando dalla giustizia. «Il suo potere? Era
come quello degli uomini della stagione mafiosa di cui ha fatto parte - spiega
lo storico della mafia Salvatore Lupo - Una forza costruita
da latitanti, e per il fatto stesso che fossero latitanti». È proprio Lupo
- assieme a Umberto Santino, direttore del Centro studi Peppino
Impastato - a tracciare un ritratto del capo
della Cupola.
«Spesso
non si considera che, nella tradizione antica della mafia, il mafioso era
perfettamente integrato nella società - spiega Lupo - Ed era anche
piuttosto rispettato nella sua vita di tutti i giorni. I Corleonesi no, loro vivevano fuori dalle
maglie della vita comune». La fuga di ‘zu Binnusi è interrotta l’11 aprile 2006, in una masseria fuori
da Corleone. Nello stesso territorio in cui lo storico boss è nato e in cui ha
cominciato a muovere i primi passi nella criminalità organizzata: prima al
fianco di Luciano Liggio, poi come
«luogotenente fedelissimo di Totò Riina». Condannato
all’ergastolo per le stragi di Capaci e di via D’Amelio, oltre che per tutti i
più eccellenti omicidi di mafia, per Salvatore Lupo «finché Riina era vivo,
Provenzano era un braccio destro, ma di certo non era
lui il nome di rilievo».
Secondo
Umberto Santino, Provenzano è stato «un personaggio che incarna la mafia degli
ultimi decenni in tutte le sue declinazioni: da quella stragista a quella
mediatrice». Da killer a capo lungimirante. «È stato il primo a capire che
delitti che miravano verso l'alto, come le uccisioni di Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo
Alberto Dalla Chiesa, avevano un effetto boomerang per la mafia. Senza la
morte di Dalla Chiesa - continua Santino - non sarebbe passata la legge
antimafia, che invece fu approvata dieci giorni più tardi». A Binnu, secondo lo
studioso, si deve la svolta diplomatica di Cosa nostra. «Ha
dato il via a una stagione di restaurazione una vecchia dimensione della mafia:
quella della mediazione e del controllo della violenza rivolta verso l'alto.
Questo gli ha dato un ruolo di icona che ha mantenuto per
anni», quelli della sua lunga latitanza.
Un
personaggio, oltre che un uomo. Che, secondo Salvatore Lupo, è stato
protagonista anche «di una cattiva letteratura che non ha fatto altro
che alimentare il folklore sulla mafia siciliana». Ma che era
anche in grado di contravvenire alle regole, di comportarsi come un anarchico all'interno della
Cupola: «Per esempio non era sposato, conviveva», racconta
Umberto Santino. Un fatto che non era visto di buon occhio - almeno dal
punto di vista formale - in un ambiente in cui i boss tendevano sempre a
condannare chi violava la sacralità del vincolo matrimoniale. Gli stessi boss
che «consideravano un puttaniere Tommaso Buscettaper le sue avventure
extraconiugali» e che arrivavano a uccidere le donneche si macchiavano di adulterio, anche
se facevano parte della loro stessa famiglia.
Provenzano
sulla famiglia aveva una visione diversa. «Un capomafia - aggiunge il
direttore del Centro studi Impastato - mira soprattutto alla continuità, alla
successione. Questo di lui non si può dire». Anche se i figli non hanno mai
preso in maniera formale le distanze dal padre, infatti, pare che il boss «li
abbia sempre tenuti alla larga da Cosa nostra: un figlio, Francesco Paolo è laureato e si è
specializzato in Germanistica. Ha anche vinto una
borsa di studio all'estero». Borsa che poi gli è stata revocata. «Ingiustamente a parere
mio - commenta Santino - Se un figlio
segue altre strade rispetto al padre mafioso, bisogna solo aiutarlo a
uscire da questo ambiente». Angelo Provenzano, il primogenito, invece, è stato al
centro di una polemica per avere preso parte a degli itinerari in cui spiegava a turisti americani la vita da figlio del
padrino.
«Raccontava della mafia vecchia scuola: quella dell'onore e del rispetto delle
tradizione». Sia Angelo che Francesco Paolo sono incensurati e non sono stati
toccati da inchieste giudiziarie.
Meridionews,
13 LUGLIO 2016
Nessun commento:
Posta un commento