GIUSEPPE LUMIA
Gli anni passano, ma le ferite rimangono aperte. Il 19 luglio di 24 anni fa la storia del nostro Paese fu sconvolta dall’ennesima strage di mafia, la strage di via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina. A molti fu chiaro, anche in quelle drammatiche ore, che si trattava della cronaca di una strage annunciata. Ed era anche chiaro che l’accertamento della verità sarebbe stato un percorso tutto in salita, una sorta di “mission impossible”.
Gli anni passano, ma le ferite rimangono aperte. Il 19 luglio di 24 anni fa la storia del nostro Paese fu sconvolta dall’ennesima strage di mafia, la strage di via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina. A molti fu chiaro, anche in quelle drammatiche ore, che si trattava della cronaca di una strage annunciata. Ed era anche chiaro che l’accertamento della verità sarebbe stato un percorso tutto in salita, una sorta di “mission impossible”.
La strage di via D'Amelio |
Con l’avvio del maxiprocesso del
pool antimafia di Palermo tra lo Stato e la mafia si creava una rottura senza
precedenti. Andavano in
crisi tre capisaldi del sistema delle collusioni: la segretezza di Cosa nostra,
l’impunità garantita dallo Stato e l’omertà diffusa.
Con il Maxiprocesso si dà il via ad un percorso
in grado di aggredire l’organizzazione Cosa nostra, la sua strutturazione in
famiglie, mandamenti, commissioni provinciali e regionali. Con la celebrazione
di questo processo e la sentenza della Cassazione del gennaio del ’92, che
convalidava definitivamente le condanne a decine di boss, si abbatte il muro
delle indagini raramente compiute, dei pochi processi celebrati e delle tante
assoluzioni che hanno contrassegnato la storia giudiziaria di Cosa nostra. Così
anche subisce un colpo non da poco il muro del silenzio del minimalismo
sull’esistenza stessa di Cosa nostra, del negazionismo che dilagava nella
coscienza di gran parte della società italiana, nonchè la scusa secondo la
quale “la mafia non esiste” adottata da molti rappresentanti delle istituzioni.
Cosa nostra va fuori di testa, ma
non i mandanti esterni alle stragi. Si determina così quella convergenza di interessi che
porta la mafia a consumare una vendetta di sangue e ad imbastire una trattativa
con le istituzioni per collocarsi nei nuovi scenari politico-istituzionali dopo
la crisi irreversibile della Prima Repubblica. La stessa cosa hanno fatto pezzi
dello Stato, della politica, dell’economia … pensando di trarne tutti i
vantaggi possibili derivanti da una situazione di grave incertezza e difficoltà
della nostra Repubblica.
Borsellino era consapevole di tutto
questo. Altro che!
La sua bocca lo ha espresso chiaramente prima e dopo la strage di Capaci. Il
suo sguardo parlava. Vivo e brillante prima del 23 maggio e spento dopo che
Cosa nostra aveva ucciso il suo caro collega e amico Giovanni Falcone e gli
agenti della sua scorta.
Gli anni passano, ma le ferite
rimangono aperte. Decine
di processi non sono stati ancora in grado di fare piena luce sul sistema di
collusioni e sulle diverse trattative che in mezzo alle stragi hanno fatto
capolino nel nostro Paese.
Molte cose le conosciamo. Conosciamo gli errori fatti in alcuni accertamenti
giudiziari, conosciamo soprattutto i buchi neri su cui bisogna ancora lavorare
per svelare le diverse verità: quella giudiziaria, quella storica, quella delle
collusioni con la politica, quella relativa alle responsabilità istituzionali.
Nel 2006 e nel 2013 in due atti
ufficiali della Commissione antimafia descrivevo alcuni di questi buchi neri.
Queste due relazioni sono state il mio impegno e il mio contributo più
importante per la ricerca della verità e per il raggiungimento della giustizia.
Oggi alla luce del dibattito che si
è generato dopo la morte di Bernardo Provenzano penso che sia indispensabile
che lo Stato faccia di tutto per convincere Riina a collaborare, in modo
genuino e trasparente. Riina è custode di segreti che ci consentirebbero di
sapere cosa è successo, di accertare tutte le responsabilità sulla morte di
Borsellino e dei tanti servitori delle istituzioni che in quegli anni sono
caduti nella lotta alla mafia. Lo Stato, anche di fronte alle più tremende
verità, ha il dovere di provarci fino in fondo. È questo il modo migliore per
rendere onore alle vittime delle mafie.
L’impegno continua perché la ferita è ancora aperta e
nessuna coscienza civile potrà mai rassegnarsi.
Giuseppe Lumia
19 LUGLIO 2016
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