di NICOLA MELLONI
In America Latina è tornata a spirare un’aria pesante. La sinistra si è persa in scandali, errori, tradimenti e la destra sta tornando al potere a passo di carica. Non si tratta però di un normale avvicendamento elettorale – come ci si potrebbe aspettare dopo tre lustri di governo delle sinistre. Il caso più clamoroso è quello brasiliano, dove Dilma Roussef è stata sospesa dall’incarico presidenziale grazie ad un colpo di mano dell’opposizione. Dilma ha subito gridato al golpe, e non a torto. La destra latino-americana non si affida più ai carri armati, ma rimane incapace di concepire come legittimo un governo di sinistra ed è pronta ad ogni mezzo pur di ribaltare i risultati elettorali. E’ successo in Honduras e in Paraguay, sono anni che ci prova in Venezuela, ed ora è toccato al Brasile.
La serie di eventi che ha portato alla messa in stato di accusa di Dilma è chiara: crisi economica legata alla congiuntura internazionale, indagini sulla corruzione della classe politica – utilizzate strumentalmente dai media padronali per attaccare il governo, quasi ignorando il fatto che l’opposizione è nel fango fino al collo – pressioni della piazza, ed infine una congiura di palazzo per ribaltare il risultato elettorale.
Sia chiaro: Dilma e il PT hanno molte colpe. Gli oltre tre mandati consecutivi al governo hanno avuto molti successi – la riduzione delle diseguaglianze, la Bolsa Familia, gli investimenti per l’educazione. Non hanno però inciso a livello strutturale: si è continuato ad insistere su un modello di sviluppo economico basato solo sulle risorse naturali – e dunque ostaggio continuo della speculazione e dei mercati internazionali; si è flirtato troppo a lungo col neo-liberismo, rinunciando a modificare sostanzialmente la distribuzione della ricchezza e del potere, non capendo che la borghesia compradora latino-americana (e, in posizione più defilata ma non certo irrilevante, gli Stati Uniti) non avrebbe mai accettato fino in fondo la vittoria delle sinistre; ed infine, conseguenza quasi inevitabile di quanto detto sopra, invece di rompere col passato si è utilizzato le classiche pratiche e modalità di governo della vecchia politica che hanno portato a corruzione e scandali di ogni tipo.
Il consenso dei primi anni, frutto principalmente, anche se certo non solo, dell’alto prezzo delle materie prime, è venuto meno una volta che l’economia mondiale ha rallentato. Eppure Dilma non poteva essere certo processata per gli insuccessi economici – in democrazia si aspetta la tornata elettorale successiva per cambiare, eventualmente, un governo che ha sbagliato.
Nella dinamica della crisi si sono poi aggiunti gli scandali di corruzione che hanno investito la politica brasiliana. Le inchieste sono state rese possibili proprio dal governo delle sinistre, che ha reso indipendente la magistratura dal potere politico e riguardano tanto la maggioranza quanto l’opposizione – ed anzi, è proprio quest’ultima a essere più pesantemente implicata, con Aecio Neves, il rivale della Roussef alle scorse presidenziali finito sotto inchiesta. Grazie ad un’ abile campagna mediatica, però, l’ondata di indignazione popolare si è riversata quasi interamente contro il governo. Il calo di popolarità di Dilma è evidente, così come la crisi di legittimità del PT, ma la Presidente non è in alcun modo coinvolta nei casi di corruzione e non poteva dunque essere deposta dal Parlamento.
Ecco allora l’escamotage, l’impeachment per un trucco contabile da sempre usato dal governo brasiliano per gestire la politica fiscale – soldi presi in prestito da una banca pubblica per coprire il deficit, che vengono poi ripagati nel successivo anno fiscale.
Una destra democratica e repubblicana avrebbe cercato di capitalizzare lo scontento reale verso il PT, puntando a vincere le prossime elezioni. Quella brasiliana ha invece deciso di forzare la mano, ribaltando il risultato elettorale con un colpo di palazzo, dimostrando il suo vero volto, rabbioso e fascisteggiante – come il deputato che ha dedicato il suo voto contro Dilma al colonnello responsabile del centro di tortura dove la stessa Roussef fu imprigionata durante la dittatura. Il nuovo presidente, Michel Temer, ha formato un governo, tutto bianco, tutto maschile, con forte presenza della destra evangelica e del grande capitale, con l’obiettivo dichiarato di riportare indietro le lancette della storia: shock therapy per rassicurare i mercati, privatizzazioni, taglio drastico dei programmi sociali. E, naturalmente, fine delle inchieste per corruzione, per non mettere in imbarazzo il nuovo governo.
Non vi è però solo l’urgenza di tornare al potere dietro queste mosse, l’obiettivo principale è impartire una lezione alle sinistre: Dilma se ne deve andare nella vergogna, gli anni al potere del PT devono essere cancellati dagli scandali, l’oligarchia deve dimostrare di essere tornata in sella a dispetto di ogni mandato popolare. Niente meglio di un impeachment fraudolento per ottenere questi risultati. Come a Caracas, d’altronde, dove la maggioranza parlamentare di destra ha intenzione di indire un referendum per destituire Maduro e, tanto per esser sicura, ha chiesto all’esercito di schierarsi contro il Presidente eletto.
Non è forse più il tempo dei carri armati, ma la natura anti-democratica della destra latino-americana e del grande capitale rimane intatta.
(31 maggio 2016)
La serie di eventi che ha portato alla messa in stato di accusa di Dilma è chiara: crisi economica legata alla congiuntura internazionale, indagini sulla corruzione della classe politica – utilizzate strumentalmente dai media padronali per attaccare il governo, quasi ignorando il fatto che l’opposizione è nel fango fino al collo – pressioni della piazza, ed infine una congiura di palazzo per ribaltare il risultato elettorale.
Sia chiaro: Dilma e il PT hanno molte colpe. Gli oltre tre mandati consecutivi al governo hanno avuto molti successi – la riduzione delle diseguaglianze, la Bolsa Familia, gli investimenti per l’educazione. Non hanno però inciso a livello strutturale: si è continuato ad insistere su un modello di sviluppo economico basato solo sulle risorse naturali – e dunque ostaggio continuo della speculazione e dei mercati internazionali; si è flirtato troppo a lungo col neo-liberismo, rinunciando a modificare sostanzialmente la distribuzione della ricchezza e del potere, non capendo che la borghesia compradora latino-americana (e, in posizione più defilata ma non certo irrilevante, gli Stati Uniti) non avrebbe mai accettato fino in fondo la vittoria delle sinistre; ed infine, conseguenza quasi inevitabile di quanto detto sopra, invece di rompere col passato si è utilizzato le classiche pratiche e modalità di governo della vecchia politica che hanno portato a corruzione e scandali di ogni tipo.
Il consenso dei primi anni, frutto principalmente, anche se certo non solo, dell’alto prezzo delle materie prime, è venuto meno una volta che l’economia mondiale ha rallentato. Eppure Dilma non poteva essere certo processata per gli insuccessi economici – in democrazia si aspetta la tornata elettorale successiva per cambiare, eventualmente, un governo che ha sbagliato.
Nella dinamica della crisi si sono poi aggiunti gli scandali di corruzione che hanno investito la politica brasiliana. Le inchieste sono state rese possibili proprio dal governo delle sinistre, che ha reso indipendente la magistratura dal potere politico e riguardano tanto la maggioranza quanto l’opposizione – ed anzi, è proprio quest’ultima a essere più pesantemente implicata, con Aecio Neves, il rivale della Roussef alle scorse presidenziali finito sotto inchiesta. Grazie ad un’ abile campagna mediatica, però, l’ondata di indignazione popolare si è riversata quasi interamente contro il governo. Il calo di popolarità di Dilma è evidente, così come la crisi di legittimità del PT, ma la Presidente non è in alcun modo coinvolta nei casi di corruzione e non poteva dunque essere deposta dal Parlamento.
Ecco allora l’escamotage, l’impeachment per un trucco contabile da sempre usato dal governo brasiliano per gestire la politica fiscale – soldi presi in prestito da una banca pubblica per coprire il deficit, che vengono poi ripagati nel successivo anno fiscale.
Una destra democratica e repubblicana avrebbe cercato di capitalizzare lo scontento reale verso il PT, puntando a vincere le prossime elezioni. Quella brasiliana ha invece deciso di forzare la mano, ribaltando il risultato elettorale con un colpo di palazzo, dimostrando il suo vero volto, rabbioso e fascisteggiante – come il deputato che ha dedicato il suo voto contro Dilma al colonnello responsabile del centro di tortura dove la stessa Roussef fu imprigionata durante la dittatura. Il nuovo presidente, Michel Temer, ha formato un governo, tutto bianco, tutto maschile, con forte presenza della destra evangelica e del grande capitale, con l’obiettivo dichiarato di riportare indietro le lancette della storia: shock therapy per rassicurare i mercati, privatizzazioni, taglio drastico dei programmi sociali. E, naturalmente, fine delle inchieste per corruzione, per non mettere in imbarazzo il nuovo governo.
Non vi è però solo l’urgenza di tornare al potere dietro queste mosse, l’obiettivo principale è impartire una lezione alle sinistre: Dilma se ne deve andare nella vergogna, gli anni al potere del PT devono essere cancellati dagli scandali, l’oligarchia deve dimostrare di essere tornata in sella a dispetto di ogni mandato popolare. Niente meglio di un impeachment fraudolento per ottenere questi risultati. Come a Caracas, d’altronde, dove la maggioranza parlamentare di destra ha intenzione di indire un referendum per destituire Maduro e, tanto per esser sicura, ha chiesto all’esercito di schierarsi contro il Presidente eletto.
Non è forse più il tempo dei carri armati, ma la natura anti-democratica della destra latino-americana e del grande capitale rimane intatta.
(31 maggio 2016)
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