Mauro Rostagno |
RINO
GIACALONE
Il 13 maggio
a Palermo è cominciato il processo di appello per l’omicidio del sociologo e
giornalista Mauro Rostagno a due anni dalla sentenza di primo grado
(giunta a quasi un quarto di secolo dal delitto, 67 udienze, 144 testi e 4
perizie per giungere ad una «semplice verità» che, invero, poteva essere
conquistata molto tempo prima se le cose «fossero andate nel verso
giusto») che ha condannato all’ergastolo due mafiosi di primo piano di
Cosa nostra trapanese, Vincenzo Virga, mandante del delitto su ordine di don
Ciccio Messina Denaro, il patriarca della mafia belicina, è suo
figlio Matteo, il latitante, capo della mafia 2.0, ricercato dal 1993,
e Vito Mazzara il killer di fiducia della cosca, il campione di tiro
a volo della nazionale italiana che si esercitava per le gare andando in giro
per fare ammazzatine varie.
Nella giornata di ieri il voto della
commissione giustizia del Senato, al secondo passaggio parlamentare, ha
definito il testo che deve tornare alla Camera, per la introduzione nel codice
penale del reato di depistaggio. Perché citare le due circostanze? La sentenza
Rostagno e il voto sul depistaggio?
Se scorrete le oltre 3 mila pagine
della motivazione con la quale la Corte di Assise di Trapani ha condannato al
carcere a vita Virga e Mazzara, la parola depistaggio la incontrare quasi 30
volte, c’è addirittura un capitolo apposito dedicato all’argomento dai giudici.
La sentenza per il delitto di Mauro Rostagno ha ad un certo punto processato,
sebbene in assenza del reato di depistaggio, il lungo e tortuoso cammino delle
indagini, è stata coraggiosa sotto questi profilo, trovando le prove, non solo
contro chi uccise il sociologo-giornalista, ma anche di chi depistò quelle
indagini.
C’è un capitolo dedicato, si
titola:“Sconcertanti anomalie, gravi negligenze nelle prime indagini e
misteriose sparizioni”. La Corte di Assise ha messo in fila i depistaggi, ne ha
contati ben 27. Alcuni tentati anche durante il dibattimento e che hanno visto
l’indice dei giudici puntato contro un sottufficiale dell’arma, il luogotenente Beniamino
Cannas, è tra i 10 testimoni chiamati a rispondere di falsa testimonianza
adesso dinanzi alla Procura di Trapani. Ma per alcuni di loro si tratterebbe di
depistaggio. E soffermandosi proprio sui carabinieri che per anni hanno malamente
indagato, la Corte ha recepito l’affermazione dei pm, «o ammettono che non
hanno saputo fare il loro mestiere o c’è dell’altro».
La corte presieduta dal
giudice Angelo Pellino nelle motivazioni ha messo tante cose nero su
bianco, a partire da quella che è stata definita “la torsione nelle finalità
istituzionali degli apparati di intelligence”.
E’ vero non è questa l’unica
sentenza a proposito dei “gialli” italiani dove compaiono elementi tali da
configurare l’esistenza di depistaggi, da Bologna a Ustica,
da piazza Fontana a via d’Amelio, dal rapimento e l’uccisione
diAldo Moro sino alle stragi mafiose del 1993, e per altre vicende
mai adeguatamente ricordate, come quelle che a Trapani videro nel 1983
l’omicidio del sostituto procuratore Gian Giacomo Ciaccio
Montalto (in sentenza si legge che le prime indagini si concentrarono
su “vicende passionali”),nel 1985 per la strage di
Pizzolungo (l’attentato al pm Carlo Palermo, che uccise una
donna, Barbara Rizzo, ed i suoi figli di sei anni, Salvatore e
Giuseppe Asta), e nel 1988, dodici giorni prima dell’omicidio Rostagno,
l’uccisione del giudice Alberto Giacomelli (ammazzato per avere
confiscato la casa al fratello di Totò Riina, per anni si parlò che lui era
addirittura un usuraio e poi che ad ucciderlo erano stati dei balordi che
volevano vendicarsi di una condanna).
L’archivio delle sentenze italiane è
ricco di esempi di depistaggi compiuti ma rimasti impuniti per l’assenza di una
norma tale da punire questi comportamenti.
E così spesso anziché di depistaggio
ai responsabili si è potuto contestare la falsa testimonianza, quando la si è
contestata, le prescrizioni hanno fatto il resto, come per esempio per i
marescialli dei carabinieri che nel 1976 parteciparono alla “truffa
giudiziaria” messa in atto per affibbiare a dei poveri cristi la responsabilità
dell’uccisione di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore
Falcetta, trucidati all’interno della caserma di Alcamo Marina, sempre
provincia di Trapani.
Trapani dove i depistaggi pare che
spesso si siano incontrati con tutto quello che veniva deciso nelle stanze di
certe logge massoniche.. La bravissima scrittrice e giornalista Benedetta
Tobagi, in un libro,“Una stella incoronata di buio – Storia di una strage
impunita” ci ha per esempio svelato il fatto che la parola
“depistaggio” in lingua inglese non esista, se un giornalista o uno storico
inglese devono descrivere un depistaggio, usano la parola italiana.
La novità legislativa difficilmente
servirà per chiarire tutto ciò che è rimasto al buio nella storia della nostra
Repubblica, ma introduce uno strumento molto potente, un deterrente forte
contro chi sbarra la strada alle inchieste, i pubblici ufficiali infedeli si
troveranno a fare i conti con condanne che vanno da sei a dodici anni di
carcere: la prospettiva di venire salvati dalla prescrizione diventerà remota.
Ma c’è di più.
E’ stata introdotta la previsione di
colpevolezza per chi deliberatamente incolpa innocenti (inquinamento
processuale). Il caso ha voluto che relatore della legge in commissione sia stato
il sen. Felice Casson, l’ex pm che senza avere il reato di depistaggio a
disposizione non è riuscito a punire i depistatori delle sue inchieste su
traffici di armi e strategia della tensione, l’indagine su Gladio per citarne
una, incastrata all’interno della cosiddetta strategia della tensione.
Liberainformazione, 15 maggio 2016
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