Giuseppe Salvatore Riina |
di GIOVANNI BIANCONI
Il racconto di Giuseppe Salvatore,
il figlio del boss. Il figlio racconta: «Assieme nelle nottate alla tv per l’America’s Cup, non
cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco
il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non
rispondo»
«Tra febbraio e marzo del 1992 passammo
notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia
gareggiare nell’America’s Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per
noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie
piazzate a mo’ di poggiapiedi... Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui,
Totò Riina, era il mio eroe». Che, in quegli stessi giorni, pianificava e
ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per
non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia.
(Mi stupisce - ma fino a un certo punto - il Corriere della sera che si presta al marketing di un libro, scritto cinicamente da chi, trincerandosi dietro l'amore filiale, non ha una parola di rispetto e di pietà umana nei confronti delle tante persone fatte assassinare dal padre e di condanna nei confronti della mafia e dei mafiosi. Mi sembra incredibile e assurdo che questo lo faccia pure la Tv pubblica. Qualcuno fermi tutto questo. Non è possibile. Uno stato democratico non può permettere che il figlio di un feroce criminale (egli stesso condannato con sentenza definitiva per mafia) vada nella tv pubblica, pagata con i soldi dei cittadini, per promuovere il suo libro di esaltazione del padre. Non si può consentire tutto questo. Fermateli! - dp)
(Mi stupisce - ma fino a un certo punto - il Corriere della sera che si presta al marketing di un libro, scritto cinicamente da chi, trincerandosi dietro l'amore filiale, non ha una parola di rispetto e di pietà umana nei confronti delle tante persone fatte assassinare dal padre e di condanna nei confronti della mafia e dei mafiosi. Mi sembra incredibile e assurdo che questo lo faccia pure la Tv pubblica. Qualcuno fermi tutto questo. Non è possibile. Uno stato democratico non può permettere che il figlio di un feroce criminale (egli stesso condannato con sentenza definitiva per mafia) vada nella tv pubblica, pagata con i soldi dei cittadini, per promuovere il suo libro di esaltazione del padre. Non si può consentire tutto questo. Fermateli! - dp)
«Il viso di Giovanni
Falcone veniva riproposto ogni minuto»
Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era
accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti
da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il
viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini
rivoltanti di un’autostrada aperta in due... Un cratere fumante, pieno di
rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche... Pure mio padre Totò era a
casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in
silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito
da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava
pensando ad altro». Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il
magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere
l’ergastolo a Riina e compari.
«Il magistrato Paolo
Borsellino appariva in un riquadro a fianco»
E poi il 19 luglio, mentre la famiglia
era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì
rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva
lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle
uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e
disposto al gioco». Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora
immagini di morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in
un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima... Lucia,
dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre
silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui,
finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. “Non lo so.
Dobbiamo tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al
mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò...
E così restammo lì fino alla fine di agosto».
Le vittime di cui non
parla
Anche l’eccidio di via D’Amelio era
stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe
Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di
tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a
suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli
occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà
vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6 —; non
è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono
le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata
felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e
conosciuta».
Il libro «Riina-Family Life»
È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio
compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena
interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»):
«Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del
“carcere duro”, io no». E nel libro lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando
Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio
padre, e così le mie sorelle e mia madre». Facile replicare che nemmeno i
familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un
pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne
voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata».
Dipende, forse. Ma lui insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro
dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella
che non si dice». Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr
contesta: «Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle
condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava
far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che
fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se
tutti pensano di poterla giudicare».
Un papà premuroso e
amorevole
Ne viene fuori un’immagine di papà
premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del
boss protagonista delle più cruente trame criminali. «Non è quello che ho
conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io sono orgoglioso di Totò Riina
come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede
che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto
mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici,
e io non me ne occupo». Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto
asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia
di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui
era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i
bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a
scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e
divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il
papà che esce la mattina per andare a lavorare — «il geometra Bellomo», si
faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai
saltata una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle
ragazze, i primi amori.
Infanzia e adolescenza
felici
Infanzia e adolescenza felici, assicura
il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di
un «terza elementare», né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o
sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di
una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci,
e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho
scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto
e pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti
abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. «Io invece lo
chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però
a me piacciono; valori forti e sani».
Con l’arresto cambia
tutto
Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio
1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma
sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che
poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso
Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata,
evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella
accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su
tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti
del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del tonno»
riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi interessa soddisfare le curiosità
altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua
coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. “Non ci si pente
di fronte agli uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva».
L’editore
Il risultato lo giudicheranno i lettori.
L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene
legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato
l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una
telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi
vuole può vedere quel film». Scene di un interno mafioso che lasciano molte
zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole
parlare del boss bensì di un padre e di una madre «ai quali devo l’inizio della
mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo?
«No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole.
Corriere della sera, 4 aprile 2016
(modifica il 6 aprile 2016 | 07:50)
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