Goffredo FOFI |
di TANO GULLO
Apparteneva
a una cultura di grande autonomia e tradizione una posizione diversa rispetto a
Pasolini o Calvino. Un suo articolo sulla rivista "Todomodo" ha
riaperto la questione sulla "non eredità" di Sciascia, sul vuoto
intellettuale mai colmato dopo la scomparsa dello scrittore di Racalmuto.
Goffredo Fofi, critico cinematografico e letterario, intellettuale bastian
contrario, dice che la società di oggi ormai anestetizzata non ha alcun
interesse a raccogliere la lezione di Sciascia, più intensa di quella di
Pasolini o Calvino «proprio perchè era un siciliano, appartenente a una cultura
di forte autonomia e tradizione». Fofi conobbe Sciascia a 19 anni e non
nasconde un rimpianto: «Me lo presentò Ignazio Silone. Io ero giovane, avevo
letto con entusiasmo "Le parrocchie di Regalpetra" ma lo avrei voluto
meno riformista e più rivoluzionario. Consolo, invece, mi disse che guardava
con simpatia al mio estremismo».
Lei nel suo
articolo per "Todomodo" parla di "nipotini" che stanno
cercando di riallacciarsi a questi maestri. Chi sono e cosa fanno? Ce n'è
qualcuno in Sicilia?
«Era una concessione retorica, e la spia di una
speranza mai sopita del tutto. Non so se ce ne sono, credo ce ne siano, ma
rarissimi! E comunque malati della malattia-parodia dell'individualismo, incapaci
di lavoro di gruppo, e – in mancanza di una sponda politica affidabile – di un
rapporto tra idee e pratiche coerente e aperto. Aperto vuol dire aperto alle
pratiche sociali in grado di contrastare il potere e le sue strategie».
Veniamo da
trent'anni di devastazioni che gli intellettuali dell'era "Berlusconi,
sinistra edulcorata e Renzi", non hanno saputo, o voluto raccontare.
Perché?
«Perché ne hanno il loro tornaconto. Perché gli sta
bene così. Ma ci sono intellettuali che, pure se in epoca di decadenza e
perdita di peso assolute di queste figure, sanno ancora vedere, studiare,
analizzare, e meno bene denunciare, perché la figura del denunciatore o
delatore, così come si è andata affermando nel mondo del giornalismo, della tv,
dell'editoria eccetera, è perfettamente funzionale a questo sistema, e conferma
lo stato delle cose invece che minarlo, però in assenza di pratiche a cui
collegarsi o aderire. Essi sono portati, di conseguenza, anche quando acuti e
chiari, a "giocare da soli", non sono più capaci di procedere in
sintonia con altri, cercando insieme ad altri. C'è un proverbio siciliano che
dice: "chi gioca solo non perde mai". Ma loro hanno finito, in
mancanza d'altro e con scarso super-io civile, a prenderci gusto e a ricavarne
qualche vantaggio, se non altro per i loro ego malati ».
Cosa direbbe
Sciascia del potere oggi? E cosa direbbe della mafia di oggi?
«Mah chissà, visto che tutto sembra diventato mafia...
O corporazione, lobby, "partito", che – morti a parte – non è un modo
diverso di organizzarsi. E vanno considerate anche le lobbies dei
"buoni", naturalmente».
E della
politica arraffatutto, come e più dei tempi democristiani?
«Questa è una domanda troppo facile... Basta guardare
alla sua opera per facilmente intuire quel che direbbe».
E della strage
continua nel Mediterraneo? E di questo ritrovato attivismo politico della
Chiesa con il papa protagonista della scena che incide sulle scelte politiche
molto più di quanto non appaia?
«Credo che anche Sciascia avrebbe considerato il papa
attuale come un'ultima speranza, anche se molto meno valida per l'Italia- dove
l'intima corruzione sociale e antropologica ha raggiunto il limite e dove la
chiesa è un pezzo di questa società e ne segue o stimola le logiche. E forse
per l'Europa, rispetto ad altri paesi».
Lei mette
Sciascia su un gradino superiore agli altri intellettuali del tempo: cosa aveva
l'autore de "Il contesto" in più di Calvino e compagni?
«Era siciliano! Era un intellettuale siciliano,
appartenente a una cultura, anche antropologica, di forte autonomia e
tradizione, diversa da quella in cui si sono formati i Calvino, i Fortini, i
Pasolini, eccetera, e aveva un particolare rapporto con la Francia dei
"lumi", il suo vero controcanto, la sua peculiare dialettica. Ma qui
azzardo, e forse dico sciocchezze ».
Rileggere
Sciascia perché?
«Questa domanda vale per gli inquieti e gli
spaventati. E per loro è superflua ».
Può
raccontarci qualche episodio del suo rapporto con lo scrittore di Racalmuto,
rapporto che si è svolto nel corso degli anni con accenti diversi ?
«Dovrei fare un lungo mea culpa. Ho conosciuto
Sciascia grazie a Ignazio Silone, quando Laterza aveva appena pubblicato
"Le parrocchie di Regalpetra". Avevo 19 anni, volevo occuparmi di
bambini e di scuola e il libro mi aveva entusiasmato, ma poi appresi con
delusione che a lui bambini e scuola interessavano relativamente. Credo di aver
letto quasi tutto di Sciascia, come di Pasolini, di Fortini, di Calvino, della
Morante, della Ortese eccetera. Molti suoi libri, come l'Inquisitore, li ho
letti tre o quattro volte. Ma come spesso i giovani (e per di più con il ‘68 a
giustificarmi!) fui per un tempo molto critico verso quello che chiamavo il suo
"riformismo": lo avrei voluto più "rivoluzionario". Ero
stupido e fanatico, lo so. Ma Vincenzo Consolo, che ho frequentato
intensissimamente, mi ha detto più di una volta che Sciascia guardava con simpatia
al mio estremismo e, forse, capendone le ragioni e giustificandolo, chissà».
La Repubblica-Palermo, 13 marzo 2016
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