Ma che accadde il 20 gennaio 1893 a Caltavuturo?
Di fronte
alla richiesta pressante di intervento per arrestare e soffocare il Movimento dei
Fasci siciliani che in quegli anni era cresciuto e si era irrobustito mettendo
in forse gli equilibri sociali in Sicilia, Giovanni Giolitti, il presidente del
consiglio del tempo che aveva improntato la sua azione politica ad una maggiore
attenzione ai fenomeni sociali e alla tolleranza nei confronti delle
organizzazioni operaie, diede ai responsabili della sicurezza pubblica
generiche disposizioni perché “fosse mantenuto l’ordine pubblico e impedito con
tutti i mezzi consentiti dalla legge, l’uso della violenza”. Una disposizione
ambigua che, certamente, non poteva soddisfare le aspettative dei
“galantuomini” ma che, ancor di più, lasciava spazi all’arbitrio di quanti, fra
i rappresentanti dello Stato, guardavano con sospetto e manifestavano ostilità
nei confronti di quelle leghe di “cafoni” che, per la prima volta in modo
organico e senza riesumare il vecchio refrain del rivendicazionismo
sicilianista, mettevano in discussione i rapporti sociali nell’isola. I
contadini in lotta, organizzati nelle leghe, chiedevano infatti la revisione
dei patti agrari, protestavano contro le tasse comunali ed il dazio di consumo
e si rivolgevano allo Stato perché ne tutelasse i diritti. Per questo motivo si
erano dati infatti una prima organizzazione per affermare, anche con la forza,
non esclusa l’occupazione delle terre, quei diritti che venivano loro negati.
Tale è il
contesto nel quale si iscrive il cosiddetto ”eccidio di Caltavuturo”, il
tragico evento consumatosi il 20 gennaio 1893, giorno di San Sebastiano. Tutto
avvenne a seguito dell’occupazione simbolica delle terre, il feudo San
giovannello, che il duca di Ferrandina, dopo una lunga trattativa, aveva loro
concesso e che i gabelloti avevano usurpato. Al ritorno in paese, i 500
contadini che avevano partecipato alla manifestazione trovarono ad accoglierli
l’esercito ed i carabinieri intenzionati, a loro modo, a ristabilire “l’ordine
pubblico”. La tensione, altissima, sfociò ben presto in disordini. Alla fitta
sassaiola, provocata da infiltrati, la forza pubblica infatti rispose non
facendosi scrupolo di sparare sulla folla, provocando la morte di 11
manifestanti ed il ferimento di ben altri 40. Una strage che costituì il primo
drammatico evento di tutta una serie di episodi di sangue frutti perversi di
una irrazionale repressione voluta da chi aveva interesse a che le cose
restassero immutate.
Il fatto
ebbe una vasta eco, non solo locale ma anche a livello nazionale, mettendo in
difficoltà lo stesso governo Giolitti che fu costretto a presentare alcune
proposte di legge per migliorare le condizioni del mondo contadino che, com’era
immaginabile, non furono coronate da successo. Non tardarono, inoltre, le
manifestazioni pubbliche di solidarietà nei confronti di una comunità così
tragicamente colpita, da parte dei dirigenti del movimento socialista
regionale. I cui maggiori responsabili, Garibaldi Bosco con Bernardino Verro e
Nicola Barbato, si recarono a Caltavuturo per esprimere la vicinanza dei
socialisti e dove, come riferisce il foglio “Lotta di classe”, furono accolti
festosamente, l’accoglienza superò le stesse aspettative.
Ma
Caltavuturo fu un segnale forte perché quelle preoccupazioni della proprietà
agraria siciliana, acquistassero consistenza e la spingessero, già nel maggio
dello stesso anno, a richiedere formalmente lo scioglimento e la dissoluzione
dei Fasci siciliani. Giolitti, nonostante le difficoltà della sua maggioranza,
forse sentendo il peso della responsabilità di quel drammatico evento, non solo
resistette alla richiesta di adozione di provvedimenti eccezionali ma,
addirittura, accusò apertamente il comportamento scorretto di chi pensava di
potere risolvere la questione sociale con la violenza inducendo così,
inevitabilmente, altre violenze. Una posizione, questa, che compromise
ulteriormente la posizione del presidente del consiglio già pesantemente scosso
dalla questione dello scandalo della Banca romana, e che lo costrinse alle
dimissioni il successivo 24 novembre di quello stesso anno. Di lì a qualche
giorno il suo posto sarebbe stato preso da Francesco Crispi, l’ex
rivoluzionario siciliano, ora uomo forte dello Stato, che, deciso a mettere
fine alla situazione di incertezza e di disordine pubblico, chiese ed ottenne
la proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia con l’obiettivo, tragicamente
centrato, di mettere fine a quello che possiamo definire l’unico vero movimento
di massa che ha posto in termini seri la “questione sociale” in Sicilia.
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