di UMBERTO SANTINO
La notizia è stata data come se fosse
un fulmine a ciel sereno, e invece si tratta di una replica, di un déjà vu. Comprendo
la reazione di Franco La Torre,
figlio di Pio, che si è visto recapitare un messaggio da don Ciotti in cui lo
si avvertiva che era venuto a mancare il rapporto di fiducia e quindi non
avrebbe fatto più parte del consiglio di presidenza di Libera, ma quel che è
accaduto si spiega se si guarda alla storia del coordinamento antimafia più
noto e prestigioso a livello nazionale e al suo funzionamento, almeno per
quello che sono riuscito a capire negli anni in cui come rappresentante del
Centro Impastato ne ho fatto parte. Ma prima vediamo quale sarebbero le “colpe”
di Franco La Torre
che avrebbero incrinato la fiducia del sacerdote che dirige Libera dai suoi
primi passi. In un’assemblea nazionale La Torre, da alcuni anni dirigente nazionale e
internazionale delle reti di Libera, ha mosso delle critiche all’operato
dell’organizzazione su alcuni temi di fondo, come l’inchiesta su Mafia capitale,
i recenti avvenimenti sul fronte dell’uso dei beni confiscati, il processo di
formazione dei dirigenti e la mancanza del confronto necessario per raggiungere
decisioni condivise.
La risposta di don Ciotti è stata un sms che corrisponde a
un licenziamento. Lo dicevo già: non è la prima volta che succede e bisogna
rifare, anche se sinteticamente, il percorso che ha portato alla nascita di
Libera. L’associazione di associazioni è nata nel 1995 con un’assemblea a cui sono
state invitate l’Arci, le Acli, la
Sinistra giovanile, era la logica dei comitati Prodi che si
formavano in quel periodo. Ricordo una lettera inviatami da Luciano Violante,
uno dei padrini di battesimo, in cui spiegava il mancato invito al Centro e ad altre
realtà di Palermo e della Sicilia come un “disguido”. Ma si trattava di
qualcos’altro, tanto che il primo nucleo di Libera era formato dalle sezioni
locali di quelle associazioni nazionali e come referenti regionali vennero
nominati, non eletti, i loro rappresentanti. In Sicilia toccò a una
rappresentante delle Acli, che mai si era particolarmente impegnata in
iniziative antimafia. In un’assemblea svoltasi a Palermo, il Centro Impastato e
il Centro sociale san Saverio dell’Albergheria posero il problema, don Ciotti
non ritenne di doverlo affrontare, invitando genericamente all’unità, e i due
centri decisero di non aderire. Alle elezioni regionali del 2001 la
rappresentante regionale di Libera si candidò con Forza Italia e fu indotta a
dimettersi. Si riaprì la discussione e, fiduciosi in un nuovo clima, noi del
Centro decidemmo di associarci. Negli anni successivi nacquero problemi che
portarono alla “sparizione” di due vicepresidenti nazionali e al
dimissionamento delle rappresentati nazionali del lavoro nelle scuole e per i
beni confiscati, due militanti siciliane. Chi invitava ad aprire una
discussione fu messo alla porta, come il gruppo di Palermo, uno dei più attivi
a livello nazionale. In un articolo pubblicato su queste pagine, il 18 novembre
2006, scrivevo che “una gestione di tipo carismatico rischia di vanificare anni
di lavoro e di emarginare esperienze preziosissime. C’è da augurasi che si
faccia strada una democrazia interna indispensabile in un’organizzazione che
più che una monarchia dev’essere una confederazione di realtà diverse e un
laboratorio di analisi, di progetti e di iniziative, nel rispetto della storia
e dell’identità di tutte le componenti”. Successivamente mi arriva un messaggio
in cui mi viene detto che don Ciotti mi sospende, “temporaneamente”,
dall’organizzazione. Un trattamento da scolaretto discolo. Preferisco dimettermi.
Quello che è
accaduto adesso a La Torre
dimostra che quel tipo di gestione non è un ricordo del passato. Qualcuno ha
scritto che il carisma è una risorsa, ma può diventare un problema se l’invito
alla discussione, qualsiasi accenno di critica, anche la più seria e
costruttiva, vengono considerati un’offesa personale e aprono la strada
all’esclusione.
Con tutto
quello che è accaduto negli ultimi mesi, con imprenditori che passavano per
antimafiosi incriminati o arrestati per mafia, l’ufficio del tribunale di
Palermo per il conferimento degli incarichi ai liquidatori giudiziari dei beni
confiscati, il più importante a livello nazionale, gestito con criteri clientelari,
le giuste critiche all’associazionismo antimafia del presidente del Senato
Pietro Grasso, con il rischio però di mettere tutti nello stesso mazzo, bisognerebbe
fare del confronto la scelta indispensabile per venire a capo di problemi che
mettono in forse i principi fondamentali su cui dovrebbe fondarsi l’antimafia. Ci
si può solo augurare che sulle lacerazioni e contrapposizioni prevalgano le
ragioni del dialogo e dell’impegno comune.
Pubblicato su
Repubblica Palermo dell’8 dicembre 2015, con il tutolo: La gestione
carismatica fa male all’antimafia.
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