L'intervento di Vera Pegna alla cerimonia per ricordare Filippo Intili a Caccamo |
La cerimonia di oggi è organizzata dalla CGIL e dal
Comune di Caccamo e questo basta a testimoniare il lungo cammino percorso nei 60
e più anni trascorsi dall’assassinio di Filippo Intili. L’anno scorso la posa di un cippo alla sua memoria da parte
dell’amministrazione comunale ha segnato l’emersione di Filippo dall’anonimato e
quest’anno ne vediamo il coronamento con la partecipazione dei familiari di
Filippo a questa bella cerimonia. Filippo era un sindacalista e un comunista ma,
prima di tutto, era un uomo giusto, partecipe della sofferenza dei suoi
concittadini, della miseria e delle ingiustizie che pativano. Le testimonianze
raccolte presso chi lo ha conosciuto (ho un ricordo nitido della sorella e del
cognato) fanno pensare che Filippo era animato dalla consapevolezza che lottare per cambiare le cose non è solo giusto
ma è anche possibile, si può fare; e questo convincimento significa no alla
rassegnazione, un no intransigente alla rassegnazione; ma Filippo era anche
consapevole che la lotta comportava un prezzo alto che andava affrontato. E
infatti, oggi siamo qui per ricordare che lui, Filippo, questo prezzo lo ha
pagato con la vita.
Ho riflettuto a lungo sul significato della morte di
Filippo, cercando di andare oltre le evidenze immediate. Perché la mafia ha
deciso di ammazzarlo, e in modo così crudele? Perché ha ucciso Salvatore
Carnevale, Andrea Raja di Casteldaccia (ricordato pubblicamente quest’anno per
la prima volta), perché se l’è presa sistematicamente con i sindacalisti
falciandone a decine? Senza dimenticare gli assassinii di poliziotti, di
magistrati e di politici. Penso a Pio la Torre che conosciuto bene.
Ebbene, negli anni 50 quando Filippo era mezzadro era normale
dividere il frumento a metà fra mezzadro e proprietario del fondo, con le spese
interamente a carico del mezzadro, nonostante la legge stabilisse la divisione
a 60 e 40 con le spese in parte a carico del padrone. Filippo aveva diviso
secondo la legge ma conosceva gli altri mezzadri, suoi compaesani, e sapeva che
non era necessario essere comunista per ribellarsi all’ingiustizia e alla
illegalità; però, da comunista, sapeva anche che le ingiustizie e i soprusi portano
in sé il germe della rivolta perché nessun popolo accetta di essere umiliato
per sempre. Immagino che Filippo avesse chiaro che la valenza di quelle lotte andava
oltre quel 10% in più di grano a favore del mezzadro poiché affermavano anche il
principio che la legge va rispettata. Però forse non immaginava, Filippo, la rivoluzione
culturale che stava portando avanti per il fatto che queste lotte mettevano in
questione ciò che a Caccamo – e non solo - era accettato come normale. Normale
dividere a 50 e 50, normale non rispettare la legge, normale per i mezzadri non
avere diritti, normale che alle elezioni amministrative le liste di sinistra
fossero sempre escluse (e Filippo era
appunto capolista alle vicine elezioni amministrative), perfino normali la
protervia e la criminalità mafiose. È la banalità del quotidiano che fa la
normalità. E il coraggio di sfidarla, questa normalità, quando è fatta di
privilegi e di ingiustizie, appartiene a pochi e questi pochi sono il sale
della terra.
Questo è il lascito politico-culturale di Filippo Intili:
è un sì alla sfida alla normalità fatta di privilegi e di potere della mafia, un
no alla rassegnazione. Sta a noi cercare nel passato, una volta depurato dalle
sue scorie, ciò che è utile oggi e per le generazioni future, ciò che delle
nostre tradizioni è da conservare, di cui andiamo fieri, e ciò che invece è
incompatibile con i valori di una società moderna, basata sui diritti e sullo
stato di diritto. Si tratta di un impegno culturale di primo piano che interpella
ciascuno di noi perché il lavoro encomiabile delle forze dell’ordine e dei
magistrati, pur indispensabile, non basta a sconfiggere la cultura mafiosa,
quella della collusione fra mafia e potere, fra mafia e istituzioni, una
cultura che usa intimidazioni e soprusi per trasformare i diritti in favori, i
quali poi diventano un cappio al collo di chi li riceve. Una condanna a vita.
La cultura non si
cambia dall’alto, con un decreto del governo ma con il lavoro cosciente e
quotidiano di tutti noi, di tanti, tantissimi singoli, che vivono con passione
la propria appartenenza a un noi collettivo
che abbraccia l’intera comunità e non solo la propria famiglia o il proprio gruppo
o partito. Certo fra le persone che compongono una comunità, ci sono differenze
economiche e sociali, ma anche differenze di idee e di ideali. E meno male che
ci sono. Però ci sono anche degli obiettivi irrinunciabili per tutta la
popolazione ed è qui che si misura il nostro senso di responsabilità visto che possiamo
sempre scegliere se passare il tempo a discutere sulle cose che vediamo in modo
diverso o a mettersi a lavorare su quelle che ci vedono d’accordo. Scegliere se
passare la vita a discutere e a
denigrare gli avversari passare la vita a lavorare per il bene comune. È
questo l’insegnamento di Filippo Intili, un modello da seguire.
Vera Pegna
Nessun commento:
Posta un commento