Cosmo Di Carlo |
“Suor Maria
del Carmelo!”. Mi chiamavi così, per ridere, associando il mio nome a quello di
mio padre. E ridere mi hai fatto quasi ogni volta, con le tue battute pronte,
orali e scritte. Da quanto ti conoscevo? mi sono chiesta. Mi pare da sempre, da
quando eri compagno di scuola di mio fratello, compagno di processione di mio
padre, nel Psdi, poi in qualche modo compagno anche mio nella breve e intensa
stagione che ci vide collaborare al Giornale del Corleonese, poi Città nuove,
ai bei tempi in cui esisteva una redazione, e si cercava di fare il giornale
con coralità, una manica di persone che venivano da vari paesi del circondario,
riunendoci prima e poi di mandarlo in stampa, e magari anche andando a mangiare
una pizza assieme dopo le riunioni. E tu, una volta: “iu prima è gghiri a ddari
a manciari ‘e gaddini. Cu è chi m’accumpagna?”. Io pronta mi ero detta
disponibile, poi avremmo raggiunto gli altri in pizzeria.
Ma tu “No, ti sporchi
le scarpe”, e io “Ma chi se ne frega” a insistere e tu a dire di no, fino a
quando Nino (Gennaro) mi aveva dato un pizzicotto nel fianco e mi aveva rivolto
una silenziosa taliatùra, come a dirmi “piantala!”. Mi spiegò dopo che, visto
il tuo diniego, non era il caso di insistere: andare in campagna di sera con te,
io da sola, non era il caso. Io, forse più libera e sicuramente anche più
scuppàta, non me n’ero resa conto. Mi pareva una cosa allegra, bella e
fattibile, ‘sta juta e venuta sarebbe durata un quarto d’ora, che c’era di
male?!? Di male sicuramente non c’era niente, ma il vivere “civile”, paesano e
non solo, aveva le sue regole.
Per il resto,
che stagione quella del giornale: assieme giovani e meno giovani, ex prof con
ex alunni, o anche persone diverse per età, per condizione, che al di fuori di
questa riunione periodica non si sarebbero incontrate, e che là si incontravano
al meglio, scambiandosi idee, progettando articoli (e quindi possibilità di
influire sulla realtà, in qualche modo?).
Poi fine
della redazione, e fine dei nostri periodici incontri.
Avevo saputo
della tua malattia, di quelle notizie che ti danno, raccomandandoti di non
parlarne con l’interessato! Ne conoscevo la terribile evoluzione direttamente
perché ne era stata colpita una mia amica. Incontrandoti per caso, invece, un
giorno a Corleone (tu grazioso e affabile come sempre) me ne avevi parlato
subito, nonostante ancora i segni di essa non fossero così evidenti da non
poterla tenere celata. Io ti parlai degli interventi del prof. Zamboni, che non
avevi voluto provare, fiducioso nelle cure che stavi facendo.
Negli anni, periodicamente
mi avrebbe dato tue notizie Dino, fino al giorno in cui sono venuta a trovarti
in ospedale, a Villa delle Ginestre, dove ti sapevo lungamente ricoverato. Una
domenica di pioggia intensa, come intenso fu (io credo anche per te) quel
nostro incontro, che non fu la visita spicciativa e di dovere che si fa fra
amici non troppo amici come noi eravamo. Non eri in camera, e mi dissero di
andarti a trovare in chiesa, dove sicuramente pensavano ti avrei trovato. E
infatti eri là, la messa ormai alla fine, tu ormai in carrozzella e molto molto
dimagrito rispetto a come ti ricordavo, ma per me, almeno in questo, migliorato
e normalizzato rispetto al tuo peso che era diventato eccessivo.
Con
l’allegria di sempre (pure là? Pure com’eri?) mi avevi condotta ad esplorare
l’ospedale, io a spingere, tu a fare da navigatore, in visita a quel centro di
eccellenza, pare, per i malati come te. Successero varie cose quel pomeriggio,
tanto da fermarmici per ore. Dovevi scrivere un articolo su un avvenimento di
Corleone. Stentavi terribilmente, non ti accompagnava la vista, non vedevi, sul
computer, dov’era il cursore e m chiedevi di individuarlo, per cui anche fare
un semplice copia e incolla, una correzione minima, costava un tempo esagerato.
Mi sono offerta di aiutarti in vario modo, indicandoti col dito un punto
critico, una virgola da mettere o una correzione da fare, o anche di farlo io
stessa, col tuo permesso, su tua indicazione, ma il mouse restò implacabilmente
incollato alla tua mano. Del resto era il tuo attaccamento alla vita di fuori,
alla notizia da dare, quello che ti permetteva ancora una piccola finestra su
un piccolo mondo. Come privartene? La scrittura di quest’articolo fu costellata
di mille telefonate, che facevi al capo redattore del Sicilia, per rassicurarlo
che avresti mandato l’articolo (e quello a rassicurare te), per chiedere chi
fosse uno dei personaggi di una fotografia da allegare all’articolo, che dovevi
nominare e che non riconoscevi. Telefonate a cataste, per me anche inutili. Ma
mi rendevo conto che quel telefonino era anche questo una sorta di tuo
periscopio sul mondo, e ogni minimo pretesto era utile a sentirci attaccato.
Poi, quello stesso lunghissimo e piacevole pomeriggio, i tuoi racconti su un
tuo zio, corredati da foto, o storie di caccia (che a me fa orrore, ma anche
quella parte della tua vita di un tempo), o a mostrarmi (tu a me, tu da là
dentro a me che vivevo fuori da un ospedale) lunghe sequenze di belle foto, di bei
paesaggi. O anche le foto del recupero dei resti di Placido Rizzotto, che avevi
in computer…
Poi era
venuta a trovarti, col marito, una ragazza, anche lei come te lungamente
ricoverata in quell’ospedale. Andato via il marito, era tornata. E là, invogliata
da te, aveva preso a raccontare la sua storia di malata. Piangeva durante il
racconto, e anche io, senza vergognarmene, l’ho fatto. Parlava del suo bambino
di pochi anni, dei lunghissimi periodi che passavano separati. Raccontava che
avrebbe potuto andare a casa il sabato o la domenica ma che spesso non voleva
perché lo strazio della separazione e del rientro in ospedale superavano di
gran lunga il piacere di tornare a casa. Da grilla parlante (ruolo che da non
malati non è difficile sostenere) le avevo detto che invece doveva doveva
doveva tornare a casa, anche un solo giorno, e va be’, poi sarebbe dovuta
rientrare in ospedale, ma almeno vivere i successivi sei giorni con quella
speranza, di tornare ancora a casa, per riandarsene, ok, ma per riandarci ancora
e ancora… Anche a te, Cosimo, emozionato non meno degli altri, avevo detto che
dovevi dovevi dovevi tornare a casa nel giorno o nei fine settimana in cui non
facevi fisioterapia in ospedale. Anche tu non meno dolente e per lo stesso
motivo. Anche tu, secondo me-grilla-parlante, ti saresti via via rincuorato.
Saresti dovuto ritornare in ospedale, ok, ma poi di nuovo a casa. Saresti solo dovuto
scendere in carrozzella e in ascensore e montare su una macchina, aiutato, ed
essere trasportato fino a casa. La posta valeva la candela, io stessa avrei
potuto accompagnarti, e prima di me sicuramente i tuoi figli, e altri amici, ne
ero sicura! Perché non lo facevi???
Da appassionata
lettrice di autobiografie, avevo proposto a te e alla tua amica-di-ospedale di
raccontare le vostre storie ad un registratore. Io le avrei trascritte e, se
volevate, consegnate all’Archivio dei diari del ‘900 di Pieve di Santo Stefano,
in Toscana, da cui sono usciti fra i libri più belli che io abbia mail letto,
primo fra tutti “Terramatta” di Vincenzo Rabito. Libri belli perché scritti col
sangue, veramente, grondanti umanità a palate.
Un incontro
bellissimo, quello di quella domenica di pioggia, dolente, commovente,
emozionante come credo sia possibile solo con chi soffre o con chi si ama.
Ero uscita
dall’ospedale che era buio, senza fretta di andarmene, anzi con una voglia di
ritornarci presto e venirti a trovare e spesso. Perché non l’ho fatto? Come
tante cose a cui si tiene e che però si rimandano, fino a non poterle più fare.
Io ne ho una collezione.
Giorni dopo
vevo fatto un giro di telefonate a vari amici corleonesi, invogliandoli a
venirti a trovare, magari addirittura a stabilire tutti assieme una specie di
calendario, per stare in tua compagnia. L’impressione che mi avevi lasciato era
di un senso di solitudine, forse frequente nei malati, specie quelli lungamente
ricoverati, che un po’ tutti, creando una catena, avremmo potuto interrompere…
Da quel
giorno, Cosimo, ogni tanto telefonavi a Nino (Rocca), mio marito, che ti
conosceva e che aveva simpatia per te, ma non aveva sperimentato con te altro.
Nino, regolarmente, dopo aver parlato un po’ con te, ti passava me, senza però
che mai tu glielo chiedessi, forse per “rispetto” di una norma non scritta che
non trova “corretto” telefonare ad un’amica, sposata, e tu sposato? Una
convenzione non scritta del vivere inteso civile, come quella volta delle
galline? Chissà.
Un’altra
volta eri ricoverato in ospedale a Corleone, sapevo che la situazione era
peggiorata. Sono venuta a trovarti fuori orario ma eri assopito, e ti ho
lasciato solo un bacio in fronte ed un saluto, raccomandando ai tuoi compagni
di stanza di non dimenticare di dirtelo, come forse hanno fatto.
Poi il 13 ero
scappata qualche ora a Ficuzza, con Nino e la canuzza. E avevamo pensato di
chiedere a Dino il numero di Antonella per chiederle se potevamo venirti a
trovare. Dicevo a Nino che pensavo sarebbe stato solo per un saluto, forse un
ultimo, visto che sapevo che la tua condizione peggiorava. Poi incontri imprevisti
nella piazza di Ficuzza ci avevano distolto da questa idea, togliendocene il
tempo necessario. Poi apprendere dal giornale, il giorno dopo, che eri morto,
magari mentre noi eravamo a Ficuzza pensando di venirti a dare un ultimo saluto.
Che ti diamo comunque, da qua, a te che non sappiamo (come di chiunque) dove
sei. E che speriamo (come di chiunque) sia un posto in cui si continua a vivere
più liberi.
Maria Di
Carlo
1 commento:
Grande Maria!! Una bellissima lettera, toccante e sincera o ancor più reale, molto reale nella quale mi rivedo profondamente!
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