di Giovanni
Perrino
Per il 70esimo Anniversario della Resistenza e della Liberazione italiana
dal nazi-fascismo Giovanni Perrino, riflettendo sui possibili percorsi
didattici che riguardano l’insegnamento della storia contemporanea, si è
dedicato, insieme all’ANPI e al cantautore mantovano Daniele Goldoni, alla
produzione di un recital musicale ricco di canzoni che ha debuttato il 23
aprile. Lo scopo è di raccontare in musica nelle scuole, nei teatri e sulle
piazze del paese, la storia recente e le trasformazioni socioculturali
dell’Italia, dai canti di guerra e resistenziali fino ai nostri giorni. Un
progetto, quello di “Un Paese Cantato”, nato dal bisogno di elaborare nuove
proposte per colmare il vuoto di memoria storica di cui sono vittime specie le
nuove generazioni.
Un esempio ed un lavoro meritorio.
Affrontare nei dibattiti e nelle riflessioni comuni il problema del
recupero memoriale è una vexata quaestio che chiama in causa
una pluralità di motivi ed una nutrita serie di possibili soluzioni sul modo di
preservare la memoria collettiva, difenderla dai ricorrenti tentativi di
rilettura dei fatti storici, conservarla a beneficio dei giovani e della loro
formazione civica e trasmetterla alle generazioni future. Nonostante i
tentativi fatti in passato, il crollo delle conoscenze di storia fra gli
studenti è verticale e, se l’Italia non è agli ultimi posti nelle statistiche
OCSE, lo si deve al fatto che il disimpegno nell’acquisizione delle conoscenze
legate alla storia moderna e contemporanea è generale nei sistemi scolastici e
negli universi giovanili di molti Paesi europei. Dalla Prima Guerra Mondiale in
poi i giovani hanno scarsa conoscenza né posseggono memoria dei fatti, persino
dei più recenti.
Primo Levi descrive assai bene tale afasia. Nel suo libro “I sommersi e i
salvati”, a pag.163, così lucidamente riflette: ” Essi sono assillati dai
problemi di oggi, diversi,urgenti: la minaccia nucleare, la disoccupazione,
l’esaurimento delle risorse, l’esplosione demografica, le tecnologie che si
rinnovano freneticamente ed a cui occorre adattarsi…Si affaccia all’età adulta
una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente
delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole,
mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o
selvagge. Per noi, parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo percepiamo
come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire
anacronistici, di non essere ascoltati.”
Chi ha visto il film di Veltroni “ Quando c’era Berlinguer” non si è
stupito del fatto che molti ragazzi affermino di non aver mai sentito parlare
di Enrico Berlinguer. Dagli anni novanta, quando proprio il Ministro On. Luigi
Berlinguer pose l’accento sulla necessità dello studio della storia
contemporanea e di una conseguente revisione dei programmi di storia nei tre
gradi d’istruzione, il problema viene posto con crescente impegno ma con
risultati piuttosto modesti. In quegli anni i docenti, costretti a spiegare più
volte gli stessi argomenti, pressati dalla preoccupazione di finire il
programma, non riuscivano quasi mai ad esaurire gli argomenti e, per molte
cause giustificate nelle relazioni di fine anno, si fermavano, nel migliore dei
casi, agli anni successivi alla prima guerra mondiale. Oggi, l’ansia di dover
seguire un programma rigido si è attenuata, ma il problema è in molti casi
rimasto a testimonianza di un disagio nell’insegnamento della storia
contemporanea accresciuto dalla marginalizzazione oraria della disciplina.
Viene autorevolmente riconosciuto che, a parte la pressione insostenibile dello
studio diacronico, in quegli anni i docenti non possedevano strumenti didattici
idonei ad affrontare con efficacia un periodo storico ritenuto troppo vicino per
essere trattato con la dovuta obiettività e troppo complesso per ridurlo a uno
studio prevalentemente mnemonico e inefficace. Molte attività di formazione si
sono svolte nelle scuole anche in vista della costituzione degli auspicati
laboratori didattici della storia contemporanea, ma gran parte delle iniziative
non ha raggiunto gli obiettivi sia per carenza di finanziamenti sia per gli
aumentati impegni dei docenti seguiti alla realizzazione dell’autonomia
scolastica.
La conseguenza è un’acritica e spesso difficile accettazione del presente
nel cui rispecchiarsi sono più i vuoti del silenzio sofferto e indifferente che
un’analisi delle cause di questo difficile passaggio al futuro. Alla deriva
della memoria contribuiscono molti elementi che non è difficile individuare:
basti solo citare la contrazione del linguaggio e l’evoluzione della
comunicazione, la diffusione delle strumentazioni digitali, la prevalenza sugli
altri del linguaggio visivo e di quello promozionale, la preferenza dilagante
per un sistema di conoscenze apprese dal vivo attraverso l’esperienza rispetto
a quella prima appresa sui libri e sul lavoro in classe.
Compito degli istituti di ricerca e delle associazioni è quello di arginare
tale deriva collaborando con i docenti per riqualificare gli apprendimenti
scolastici e ricondurre le conoscenze storiche al loro ruolo primario nella
formazione giovanile. Istituti e Associazioni come l’Anpi, nata nel 1948 con lo
scopo di trasmettere alle generazioni future l’enorme materiale storico,
documentale e testimoniale della lotta di liberazione dal nazi-fascismo, hanno
contribuito alla crescita nel nostro Paese di un’autentica cultura democratica
attraverso una severa difesa dei valori resistenziali.
Il compito attuale consiste nel traghettare nei tempi convulsi che viviamo
non solo “quella” storia, ma anche i valori che veicola e che spesso attendono
sotto i nostri occhi di essere riconosciuti e tradotti in codici
comportamentali all’interno di un quadro istituzionale di efficienza e
funzionalità.
Per questa ragione è stato ideato e progettato dall’A.N.P.I. di Mantova il
recital “Un Paese Cantato”, che ha preso avvio da una riflessione sulla musica
dei più famosi cantautori degli anni ‘70 e ’80, i cui contenuti si legano senza
soluzione di continuità alle scelte di tolleranza e di pace che indussero molti
giovani al rifiuto della guerra e all’impegno antifascista. L’ipotesi di lavoro
riguarda le fonti d’ispirazione di importanti artisti come De Gregori, Guccini,
Dalla, De Andrè etc. che trova continuità con il vasto repertorio di musica
popolare sparso per tutta Italia e custodito negli archivi. Tali musicisti,
legati ad un contesto sociale e spesso ideologico definito, nelle loro
composizioni, oltre all’amore, fanno riferimento ad espressioni valoriali come
la solidarietà, la lotta per una società più libera e giusta, la libertà, il
bisogno di verità, il lavoro che rappresenta oggi un’ideale colonna sonora
degli ultimi decenni e delle trasformazioni sociali del Paese.
Ci si è chiesti, in pratica, se non valesse la pena verificare se i valori
espressi dalle canzoni, che i giovani conoscono a memoria e cantano nei
concerti, siano legati come un filo d’Arianna ai canti popolari della
Resistenza, a quella stessa voglia di libertà e di giustizia che aveva animato
i partigiani e persino gli alpini ed i soldati nella guerra del 1915-18. E’
ormai accreditata, infatti, da parte di autorevoli studiosi come Roberto Leydi
che il movimento partigiano, più che esprimere sue canzoni, elaborò,
adattandoli, testi e melodie risalenti alla prima guerra mondiale come ad
esempio “Il bersagliere ha cento penne” (rimasto intatto anche nel titolo) e
canti popolari o appartenenti al filone socialista e anarchico come, ad
esempio, “Addio Lugano bella”.
Affascinante, anche se non comprovata, appare l’ipotesi di un’origine
popolare padana di “Bella Ciao”, la cui melodia potrebbe risalire a un canto
delle mondine in seguito divenuto canto partigiano nella zona della Libera
Repubblica di Montefiorino, sull’Appennino bolognese dove erano attive le
Brigate Garibaldi. Altro esempio riguarda l’origine di “Fischia il vento” che
Felice Cascione, comandante partigiano della Brigata di cui farà parte Italo
Calvino, scrive sulla melodia popolare russa di Katiuscia cantata da un suo
compagno che aveva partecipato all’invasione russa sul fronte del Don. “Bella
Ciao”, dopo la Liberazione, divenne un successo internazionale quando venne
cantata dai partigiani padani nei vari Festival Internazionali della Gioventù,
che in quegli anni si svolgevano in molte capitali dell’est europeo. Il canto
ebbe invece sorte diversa in Italia dove rimase patrimonio dei valori
resistenziali e solo nel ‘63 Giorgio Gaber potè cantarla, insieme a Maria
Monti, nella trasmissione televisiva “Canzoniere Minimo”, ma senza l’ultimo
verso “questo è il fiore del partigiano morto per la libertà”. Il cantante la
registrò su 45 giri solo nel 1965.
Allo stesso modo è interessante sapere che “ Dio è morto”, la famosa
canzone di Francesco Guccini portata al successo dai Nomadi, partecipò al
Cantagiro nel 1967, ma la Rai ignorò il brano ritenuto blasfemo. La canzone,
invece, venne apprezzata e trasmessa per prima dalla Radio Vaticana. Un’analisi
di tal genere ha confortato l’idea guida generatrice del progetto, che si
potesse raccontare ai giovani la storia del Paese Cantato attraverso le sue
musiche, partendo dai canti di guerra per giungere, attraverso la canzone
popolare e della Resistenza, alle canzoni dei più noti cantautori. Dopo una
prima verifica dei titoli delle più note canzoni, si è ritenuto di intercettare
l’interesse del mondo giovanile e non solo, riflettendo sul fatto che le parole
e le musiche spesso eleganti degli artisti originano, quanto ad ispirazione,
dagli stessi temi di quei canti “storici”. In questi testi il bisogno di
sussidiarietà, la voglia di giustizia, i problemi occupazionali non configgono
con il tema amoroso tipico di tanta musica leggera ma, piuttosto, vi si accompagnano
in modo originale diventando canti contro la guerra, contro i padroni, canti di
dolore e di libertà in un Paese che faticosamente ha cercato negli anni la
strada per essere degno di quello sognato dai martiri della Resistenza. Il
titolo del recital musicale, affidato ad un bravo cantautore come Daniele
Goldoni ed alla sua Band, dichiara esplicitamente lo scopo di raccontare la
storia recente e le trasformazioni socioculturali del Paese dai canti di guerra
e resistenziali fino ai nostri giorni.
Il titolo, semplice ed immediato, è venuto da sé: “Un Paese cantato”,
perché un recital musicale potesse indicare a chi ascolta che la Resistenza non
è un problema di memoria storica, quanto piuttosto un problema di democrazia e
cittadinanza agita e quotidianamente testimoniata come, in forme diverse, fanno
i giovani d’oggi nelle scuole, nelle piazze e nei luoghi di lavoro. La storia
della musica, da quella lirica a quella sinfonica o leggera, può essere ancora
una volta importante strumento di conoscenza e di ricerca.
Un grimaldello, una chiave come tante con cui rivolgersi ad un pubblico
giovanile raccontando, anche con le parole delle musiche preferite, che essere
cittadini vuol dire vivere ancorati a quei valori, a quelle scelte di libertà
che furono proprie dei partigiani, che sostennero fino alla morte la loro
fiducia nel futuro.
Un modesto quanto indispensabile lavoro di TRADUZIONE della TRADIZIONE, che
consente di individuare più facilmente nel linguaggio quotidiano parole chiave
non obsolete o rese tali dalla ripetitività dei media, ma che siano attuali e
legate da un lato alle modalità odierne della comunicazione giovanile,
dall’altro all’acquisizione di un sapere che sappia rispecchiare nel presente e
quindi anche nel futuro la memoria del passato.
Giovanni Perrino
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