Dino Paternostro, direttore di Città Nuove |
Intervista a
Dino Paternostro, direttore del giornale online “Città Nuove” e
segretario della Camera del lavoro “Placido Rizzotto” di Corleone, realizzata da Francesco Saverio Mongelli (Bari)
Come è cambiata, a suo giudizio, la
mafia a Corleone nelle sue abitudini, nelle gerarchie, nel modo di fare affari,
dagli anni ’50-’60 ad oggi?
Dagli anni
’50-’60 ad oggi nella mafia corleonese vi sono stati cambiamenti, ma anche una
certa continuità. Già negli anni ’60, con Luciano Liggio e poi con Totò Riina e
Bernardo Provenzano (preceduti da “don” Vito Ciancimino), da Corleone era
“sbarcata” a Palermo, dove – negli anni ’80 – avrebbe conquistato i massimi vertici
della Cosa Nostra siciliana. Nonostante lo sbarco in città, però, i mafiosi
“corleonesi” hanno sempre continuato ad avere radici forti nella cittadina
d’origine e legami profondi con la terra, quasi a non volersi staccare dalle
origini “contadine”. Nel tempo anche a Corleone hanno cominciato a praticare il
traffico degli stupefacenti e le estorsioni, sfatando il falso mito di una
mafia “buona” che in paese impediva la circolazione di sostanze stupefacenti e
non praticava il racket.
Ho ammirato l’importante
lavoro da lei svolto nell’onorare la morte di un grandissimo sindacalista come
Placido Rizzotto. Quando penso ai sindacalisti mi vengono subito in mente anche
Pio La Torre e Giuseppe Di Vittorio. Oggi la politica è molto cambiata rispetto
agli anni ’30-’40. Qual è l’insegnamento che i sindacalisti di un tempo possono
dare a chi oggi vuol fare politica?
Si tratta di
credere nei valori. Personaggi come Placido Rizzotto, Pio La Torre e Giuseppe
Di Vittorio credevano nei valori della libertà, della democrazia e della
giustizia sociale. Sostenevano che libertà e democrazia senza giustizia sociale
era un vuoto esercizio di retorica. E per i valori in cui credevano mettevano
in gioco la loro esistenza. Credevano anche alla necessità di promuovere nel
Sud e in Sicilia lavoro e sviluppo nella legalità. Si tratta quindi di
riscoprire questi valori e ricominciare queste buone pratiche. Per questo ci
stiamo impegnando molto nel recupero della memoria storica. La memoria storica
ci dice che siamo e da dove veniamo e ci da le coordinate per la direzione
verso cui andare, avendo come stella polare i valori di cui ho parlato.
Ha partecipato come giornalista al
Maxi-Processo? Che ricordo ne ha?
Il
maxiprocesso alla mafia siciliana è stato possibile grazie a magistrati
straordinari come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (ma anche a Rocco
Chinnici e Antonino Caponnetto, che hanno “inventato” il pool antimafia), ma
senza il nuovo quadro normativo derivante dalla legge La Torre non sarebbe
stato possibile. Dobbiamo, quindi, essere grati a Pio La Torre che ha voluto
introdurre nel codice penale l’art. 416 bis, cioè il reato di associazione a
delinquere di stampo mafioso. Paradossale per quanto possa sembrare, fino al
1982 in Italia essere mafiosi non era reato. Lo è diventato con l’entrata in
vigore della legge voluta fortemente da La Torre, che ha introdotto anche la
norma del sequestro e della confisca dei beni di provenienza illecita. Io ho
conosciuto Pio La Torre e ricordo quando mi diceva in dialetto stretto: “Ai mafiosi
ci dobbiamo togliere i picciuli”. Quella del maxiprocesso fu una stagione
straordinaria, che mise fine al mito dell’impunibilità della mafia.
Che ricordo ha di Giovanni Falcone,
Paolo Borsellino, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa e don Pino Puglisi?
Sono tutti
personaggi straordinari. Falcone l’ho incontrato un giorno a Ficuzza, una
borgata di Corleone, dove era venuto un 20 agosto per ricordare il colonnello
dei carabinieri Giuseppe Russo. Con Pio La Torre avevo una frequentazione
derivante dalla comune militanza nel partito comunista italiano. Ricordo che
abbiamo fatto una giornata di campagna elettorale insieme nel 1976. Pio arrivò
la mattina da Palermo con una vecchia 127 rossa (altro che macchinoni di lusso
dei politici di oggi!) e siamo andati a fare comizi prima a Prizzi, poi a
Palazzo Adriano, poi ancora a Bisacquino, dove è andato subito a trovare un
anziano contadino, Salvatore Catalano, che era stato ferito alla spina dorsale
il 10 marzo 1950 durante l’occupazione del feudo di S. Maria del bosco e che da
allora rimase invalido su una sedia a rotelle per tutta la vita.
Non ho
conosciuto personalmente Paolo Borsellino e don Pino Puglisi, ma costituiscono
punti di riferimento ideali davvero importanti per chiunque si batta contro la
mafia e per la giustizia sociale.
Pur non essendo vissuto
negli anni in cui è stato segretario del PCI, mi sono appassionato alla figura
politica di Enrico Berlinguer. Che giudizio ha di quest’uomo?
È stato un
uomo politico antico e moderno contemporaneamente. Antico nel suo restare
legato ad una moralità e ad una concezione austera della vita tipica dei nostri
padri costituenti. Moderno nel sapere cogliere i limiti e le contraddizioni del
comunismo internazionale, portando il Pci a superarlo. Moderno nell’aver
saputo intuire le degenerazioni del sistema politico italiano, che si
stava trasformando sempre più in una mera macchina per la gestione del potere.
Si, certo, oggi si sente la mancanza di un uomo politico dello spessore di
Enrico Berlinguer.
Lei crede che il carcere possa
avere realmente la funzione di rieducare il detenuto affinché, una volta
libero, non compia più atti criminali?
L’Italia è
il paese di Cesare Beccaria e deve essere orgogliosa di questo. Il fine
del carcere dev’essere quello di rieducare il cittadino che sbaglia. Ci vuole
però anche equilibrio e senso di responsabilità, affinchè rappresenti anche un
luogo dove chi sbaglia sconti davvero la sua pena.
Ha mai conosciuto qualcuno dei nove
giornalisti uccisi dalla mafia? Che ricordo ne ha?
Non ho
conosciuto nessuno di loro personalmente, ma i nomi di Cosimo Cristina, Mauro
De Mauro, Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mario Francese, Pippo Fava,
Giancarlo Siani, Mauro Rostagno e Beppe Alfano sono scolpiti nella mia mente e
rappresentano esempi di “giornalisti giornalisti” – come diceva Siani – di cui
andare fieri. La libertà di stampa rappresenta uno dei diritti fondamentali dei
cittadini. Non a caso, l’Assemblea nazionale francese, ai tempi della
rivoluzione del 1789, l’inserì ai primi posti della “carta costituzionale”. I
tanti giornalisti italiani assassinati dalle mafie dimostrano, purtroppo, che
nel nostro Paese la libertà di stampa non gode di ottima salute.
In attesa di un risveglio dai piani
alti della politica, cosa possiamo fare noi giovani per contribuire alla lotta
contro le mafie?
I giovani,
come ci disse nel 1972 Leonardo Sciascia in un’intervista per il giornalino del
liceo, possono fare tutto, a condizione che restino giovani. A condizione,
cioè, che non accettino compromessi e non aspettino la rivoluzione mondiale per
cambiare le cose. La rivoluzione mondiale non verrà. Per cui bisogna cominciare
qui ed ora a cambiare le cose, partendo dai piccoli comportamenti quotidiani,
senza aspettare il risveglio dei piani alti della politica, ma provando a
cambiare la politica, costringendola a cambiare. Oggi c’è bisogno di
un’antimafia sociale, capace di coniugare la rivolta etica degli onesti con la
costruzione di percorsi capaci di creare lavoro e sviluppo nella legalità. E qualcosa
sta nascendo: in Sicilia, ma anche in altre regioni meridionali, grazie alla
legge di iniziativa popolare n. 109/96, voluta da “Libera” e dalla società
civile, si sono costituite tante cooperative sociali di giovani che coltivano
le terre confiscate alle mafie. Sono diverse centinaia di giovani che oggi
lavorano onestamente attraverso il riuso produttivo delle terre strappate ai
boss di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta, della Sacra Corona Unita e della
Camorra. Tra l’altro, grazie a queste cooperative, nei nostri territori ogni
anno arrivano migliaia di giovani volontari da diverse regioni d’Italia, che
s’impegnano nei campi di lavoro e di studio, fanno sentire meno soli i soci
della coop antimafia, aiutano a conoscere meglio la storia e le storie della
mafia e dell’antimafia, fanno maturare una nuova coscienza civile.
Dal Blog di FRANCESCO SAVERIO MONGELLI (Bari)
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