giovedì, aprile 23, 2015

Ora e sempre Resistenza. Fibre “resistenziali” nell’arte contemporanea italiana

di ANNA MARIA PANZERA
 Resistenza in arte. storia, rappresentazione e immagine.
C’è sempre un tumulto di emozioni quando provo a parlare di Resistenza. Ovviamente non l’ho vissuta ma ne ho sentito parlare e, per fortuna, dalla viva voce di alcuni protagonisti. E poi l’ho studiata, certo: libri di storia, saggi, testimonianze. Quante volte ho provato a “restituirla” alle mie scolaresche, con la stessa intensità con cui l’ho appresa!
Mi chiedo perché, e mi rispondo che dev’essere per il sentore di come il termine, riferito a una realtà storica dall’immensa forza politica ed emotiva collettiva, si estenda all’oggi diventando una dimensione esistenziale e privata. Ho paura di essere pretenziosa. Ma è proprio quello che sento, senza troppo perdermi in balbettii sociologici e psicologici.
Non sottovaluto che la colpa sia anche dell’invito fattomi a sviluppare l’argomento con riguardo alla Storia dell’Arte:
la risposta si presenta come (virtuoso?) corto circuito tra storia, arte e vita. Pensieri un po’ scomposti fanno riecheggiare la frase – quella usata anche per il titolo di questa pagina – qualche volta gridata durante le manifestazioni; ne cerco l’origine e la ritrovo nella nota poesia scritta da Piero Calamandrei nel 1952 [1]. Fu incisa su una lapide nel palazzo Comunale di Cuneo, in ricordo di Duccio Galimberti [2], come reazione a un’infelice frase del comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, Albert Kesserling; questi, processato nel 1947 e condannato a morte per numerose stragi (le Fosse Ardeatine e Marzabotto, tanto per citare le più note), vide la sua pena commutarsi in carcere a vita e poi in libertà a causa delle precarie condizioni di salute: non ebbe mai nulla da rimproverarsi, anzi, considerava il suo comportamento in Italia degno di un monumento. Perciò Calamandrei pensò all’unico “monumento” possibile: non fatto di pietra ma di voglia di riscatto e di libertà.
Non mi sembrano parole desuete. Anzi, mi viene da considerarle quasi una categoria sostanziale dell’arte, valida in tutte le epoche e per molti, variabilissimi contesti. Confesso che ciò di cui vorrei parlare, forse, non sono solo le immagini che hanno descritto, illustrato o testimoniato quel tempo eroico in cui il popolo italiano provò a guarire dal virus ottenebrante del fascismo; non solo degli artisti, e non furono pochi, che s’impiegarono nell’opera attiva di liberazione del Paese. Ho necessità di riannodare fili storici più lunghi, per scoprire da che pasta nascesse il pane del contemporaneo artistico in Italia e quante fibre “resistenziali” esso contenesse o contenga ancora.
Non è facile orientarsi e chiedo scusa sin d’ora per l’inevitabile incompletezza della sintesi.
Durante i primi anni dell’epoca fascista, gli artisti figurativi si muovono timidamente fra tradizione e innovamento. A parte lo sperimentalismo gagliardo ma anche petulante e un po’ guascone delFuturismo, l’urlo delle avanguardie europee in Italia arriva affievolito ma non inefficace: un affluente che s’interra e lavora nel sottosuolo, nonostante il progetto di ordinamento formale pronunciato da Margherita Sarfatti e dal suo Novecento [3]: non un movimento vero e proprio, ma un vago richiamo alla “esclusione sempre maggiore dell’arbitrario e dell’oscuro” [4], a una pittura coscienziosa e limpida. Che cosa vogliano dire queste formule, pochi lo sanno; certo è che, invece di dar strada a un intento unitario, Novecento produce molte individualità, che cercano di essere attente a quanto accade contemporaneamente in Europa. In breve tempo, tra il 1929 e il 1930 nelle principali città italiane, molti artisti si scrollano di dosso il sogno neo-rinascimentale della Sarfatti: a Torino, il gruppo dei “Sei” (Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico Paulucci) si raccoglie all’ombra dell’Olympia di Manet per elaborare una pittura antiaccademica, capace di assorbire le conquiste più importanti dell’Impressionismo e del Post-impressionismo francese, con incursioni nelle nuove gamme cromatiche antinaturalistiche di Matisse e di Chagall; nella Capitale, la cosiddetta “Scuola romana” (Antonietta Raphaël, Scipione, Mario Mafai, Fausto Pirandello) apre le porte a un simbolismo antiretorico e visionario, pieno di poesia e di suggestioni profonde, di malinconie esistenziali stranianti, di masse compositive possenti e vertiginose.
È una stagione artistica ricca e non priva di problematicità, su cui lo Stato tenta di intervenire attraverso la riorganizzazione del settore espositivo: sia per avere un maggiore controllo sull’iconografia, che per regolare i rapporti tra la produzione artistica e il pubblico. La retorica di regime intende costruire un nuovo “Noi”, modello ottimistico di esuberanza nazionale tutto teso al recupero dell’archeologia romana, in vista della costruzione di un nuovo primato italiano nelle arti. Viene riformulata la Biennale veneziana e creata la Quadriennale, vero avamposto del nuovo accademismo. Ma – sarà per la fumosità del programma, sarà per la sostanziale ignoranza del linguaggio artistico, che non permette ai censori di capire come e dove praticare limitazioni – la scena artistica italiana si concede spazi di libertà e originalità anche tra le fila di coloro che lavorano più a stretto contatto col regime (per esempio Sironi, Carrà, Martini, per non parlare dei molti architetti), in nome dei linguaggi d’oltralpe, ormai parlati anche sul “suolo italico”.
Prova ne sia, prima il realistico profilo della situazione dell’arte contemporanea in Italia, fornito dal giovane editore Giovanni Scheiwiller nel volume Art Italien Moderne (Parigi 1930) [5], che riesce a presentare gli artisti italiani in un’ottica internazionale, scegliendo fra quelli più inquieti e sottolineando la vitalità dei centri minori accanto alle grandi città; poi fenomeni come l’astrattismo milanese e comasco, tutt’altro che autarchico pur rimanendo intensamente italiano, e capace di rompere i legami con la tradizione figurativa su un piano formale e sostanziale insieme.
1934, 1935, 1936, 1938: sono gli anni delle tavolette e delle Conchiglie di Lucio Fontana (tornato dall’Argentina dopo la prima Guerra mondiale), in cui superfici e colori cominciano a muoversi nello spazio senza «premeditazioni strutturali» [6]; o del mondo surreale ed eccentrico di Osvaldo Licinie delle sue Amalassunte, le creature lunari «amiche di ogni cuore un poco stanco» [7].
Gennaio 1938, poi, è anche la data del primo numero della rivista milanese “Vita giovanile – Periodico mensile di letteratura arte politica”, che a ottobre dello stesso anno diviene il più noto “Corrente”, edito dall’allora diciottenne Ernesto Treccani: ne sono redattori Raffaele De Grada, Vittorio Sereni, Dino del Bo, che ne fanno una rivista d’opposizione, fucina di tutti i giovani talenti che dal 1940 in poi entreranno nel vivo della lotta antifascista prima e partigiana dopo.
Insomma, in Italia non ci sono le condizioni perché abbia luogo una mostra sul modello di quella intitolata “Entartete kunst”, che nel 1937 Hitler inaugura a Berlino, raccogliendo ed esecrando le opere degli espressionisti (cinquemila saranno bruciate pubblicamente, le rimanenti andranno all’asta o finiranno nelle quadrerie di nazisti non sprovveduti).
Tuttavia, questa situazione complicata, fatta di «arte fascista, arte antifascista, arte non fascista, arte di Stato, arte di regime, arte non fascista ma che chiede riconoscimento allo stato fascista» [8], diviene progressivamente sempre più asfittica. Al suo interno matura il nostro modernismo più avanzato ma gli artisti più coraggiosi sono bersaglio di critiche e contestazioni. La singolare posizione a favore della libertà creativa sbandierata da Bottai, Ministro dell’Educazione Nazionale dal 1936, sembra motivata sostanzialmente da realismo politico (e fallimentari sono i suoi tentativi di recupero dei dissidenti [9], che invece manifestano sempre più chiaramente la loro opposizione, con tutte le conseguenze, come l’essere colpiti dalle leggi razziali). Non manca chi vuole relegare l’arte a un’attività superflua, isolando coloro che la praticano con autonomia e spirito civile. Lo dice con la sua viva voce Raffaello Giolli, critico d’arte, fondatore della prima rivista d’arte contemporanea in Italia [10]: «Lo sa la Germania, che ha creduto di poter porre all’arte il dilemma dell’esser nazista o d’essere esiliata» o la Russia comunista con la sua «mistica del piano quinquennale» [11]. E ancora: «Questa libertà dell’artista non ha bisogno di alcuna superiore concessione. È nell’ordine naturale delle cose. Da sé sola essa si riscatta. E se uno scontro c’è, il danno è degli altri» [12]; quando Giolli pronuncia queste parole è il 1933 e la sua convinzione è che non lo Stato debba difendere l’arte ma l’intera comunità, riconoscendo in essa una professione pari alle altre arti liberali e intesa a trasmettere ciò cui la scuola non educa.
Ecco: belle prove di resistenza prima della Resistenza e in tempi ancora non sospetti.
La figura di Giolli ci traghetta rapidamente nel cuore del nostro argomento.
Arrestato prima nel 1940 per le sue idee antifasciste, poi nel 1944 per la sua adesione al movimento partigiano dell’Ossola, Raffaello Giolli viene torturato e infine deportato nel campo di concentramento di Mauthausen Gusen. La sua parabola tragicissima s’intreccia con molte altre storie analoghe, di resistenza e di denuncia, più o meno pronunciata, più o meno rassegnata, più o meno agguerrita, più o meno operativa.
Dalle malinconiche Demolizioni (1935-1939) di Mario Mafai, che racconta senza retorica lo sventramento della Spina di Borgo a Roma (che vuoto, quello lasciato dal forzato trasferimento degli abitanti storici di uno dei quartieri più antichi e caratteristici della città nell’allora desertica zona di Acilia!), fino alle tele rivelatrici della realtà italiana degli anni Quaranta, come quelle realizzate da Renato Birolli e Renato Guttuso.
Il primo, attivo nella lotta partigiana, è autore di Italia 1944, una serie di disegni ispirati a episodi avvenuti nel Veneto e in Lombardia, perché «non tramuti in generica leggenda quanto fu dramma vero»; sono realizzati sulla base della lezione picassiana che Birolli apprende e rielabora durante i viaggi in Francia nel 1936 e nel 1947, sempre più consapevole di quanto il linguaggio di Guernica, che appare come la più riuscita condensazione tra esigenza di denuncia morale e ricerca di una forma moderna, sia in realtà solo un passaggio all’interno del percorso perennemente dinamico messo in atto dal suo autore.
Il secondo, Guttuso, è testimone implacabile delle uccisioni e dei massacri fascisti e nazisti: dallaCrocifissione del 1942, ai famosissimi acquerelli della serie Gott mit Uns pubblicati dal Saggiatore nel 1944, Guttuso utilizza le commissioni che riceve per rielaborare scene della tradizionale iconografia artistica in chiave attuale.
A proposito della Crocifissione dichiara: «Questo è tempo di guerra e di massacri : Abissinia, gas, forche, decapitazioni; Spagna; altrove. Voglio dipingere questo supplizio del Cristo come una scena di oggi … come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee… le croci (le forche) alzate dentro una stanza. I soldati e i cani – le donne scarmigliate discinte piangenti – al lume di candela (la candela di Guernica?). Gente che entra ed esce… oppure puntare sul contrasto. Il supplizio tra il popolo con giocolieri e soldati – Circo e massacro – Al sole con l’uragano che arriva» [13] . Il debito con le avanguardie (ancora presente ma rivolto al graduale recupero della funzione documentale dell’arte), la presenza di caricature riconoscibili (uno degli aguzzini ha dei baffetti alla Hitler), il colore rosso del ladrone in primo piano (immediatamente letto come una “bolscevizzazione” dei personaggi del Golgota), non impediscono a Guttuso di vincere il secondo posto nell’annuale edizione del “Premio Bergamo”; tuttavia, sia la stampa cattolica che quella fascista rovesciano sul pittore un profluvio di invettive e insulti: la prima con la consueta bigotteria, la seconda con la tipica volgarità e capziosità.
Probabilmente, entrambi comprendono con timore cosa sta avvenendo. Un numero crescente di artisti fa collimare la sua identità professionale con un vigoroso antifascismo, molti partecipano attivamente alla resistenza partigiana, che dal 1943 è uscita allo scoperto; oltre ai già citati, è doveroso ricordare, almeno a titolo di rappresentanza, i nomi di Aligi Sassu, Mirko Basaldella, Armando Pizzinato, Emilio Vedova, Giulio Turcato. Nei momenti di “pausa” dalla guerriglia, usano l’arte come una spugna che raccoglie sangue, fatiche, visioni, speranze, illusioni e disillusioni di una stagione molteplice e stratificata in tantissimi piani non sempre facili da discernere. Molti di loro aderiscono con entusiasmo al PCI, riversano tutto il loro vissuto – anche artistico – in una passione politica davvero pura e piena di umanità, lontana da ogni logica pragmatica. Elaborano nel frattempo nuove esigenze espressive, con l’idea di dare anche così un contributo alla lotta comune, nel rispetto della specificità del sentimento di ognuno. Molti fra essi hanno bisogno di recuperare una vena narrativa e antiformalista, dove possano trovare spazio i nuovi contenuti sociali, civili, politici, che devono essere di nutrimento all’embrione di un’Italia nuova. S’imposta la questione del “realismo”, cui partecipa il critico Mario De Micheli con due documenti: il primo, mai pubblicato, redatto nel 1943 in collaborazione con Emilio Morosini, Ennio Morlotti, Raffaele De Grada, Emilio Vedova ed Ernesto Treccani, condanna il surrealismo, l’espressionismo, il novecentismo, la metafisica, a favore del carattere popolare dell’arte; il secondo, con il titolo Realismo e poesia, circola manoscritto fra il 1944 e il 1945.
In quello stesso 1944, in un’estiva Roma “città aperta”, Antonello Trombadori allestisce la rassegna “L’arte contro la barbarie”; vi partecipa ancora una volta Renato Guttuso con la sua reinterpretazione delle Fucilazioni del 3 maggio di Goya, ma anche gli altri intervenuti rileggono opere d’arte del passato: Mirko restituisce in chiave contadina La Marseillaise di François Rude; Mafai rifà La libertà che guida il popolo di Delacroix; Turcato, La difesa di Pietroburgo di Deineka e Rambaldi ripropone il Marat assassinato di David.
È il momento in cui accade qualcosa d’insolito; ai nostri occhi forse anche insensato. La mostra è presentata sotto il patrocinio de “L’Unità” (creata da Antonio Gramsci, è appena uscita dalla clandestinità e pubblicata in edizione cittadina). Palmiro Togliatti fa parte del comitato d’onore. Dalla primavera di quell’anno, Togliatti – ancora con lo pseudonimo di Ercoli – risiede a Napoli, in via Broggia; da allora, il quartiere di S. Potito, che la contiene, diventa il quartier generale della ricostruzione culturale italiana: i liberatori risalgono lo stivale e con loro sale l’influenza crescente di quelleader, che molti riconoscono quale unico referente culturale possibile, insieme al partito di cui è segretario generale. Certamente è così per gran parte del mondo artistico italiano: di Togliatti si apprezza l’erudizione; la sua opposizione all’idealismo crociano (benché l’ammirazione per “don” Benedetto non sia mai pubblicamente disertata); i contatti e la conoscenza di molta avanguardia letteraria dell’epoca. Sembrerebbe non possa nascere altro che un idillio fra lui e quei pittori che hanno fatto la Resistenza e ora si aspettano di trovare spazi pubblici di libera espressione.
Invece, la mostra romana suscita in lui profonda indignazione. Per il perdurante espressionismo, si dice, e perché non è abbastanza presente il tema del popolo vittorioso al posto di quello del popolo oppresso. Cominciano gli articoli inviati a “Rinascita” (la nuova rivista di partito nata proprio allora), quelli d’argomento culturale scritti a mano con il famigerato inchiostro verde: molti sono assolutamente tranchantes [14].
Sembra solo un’extrasistole passeggera nel battito regolare dell’arte italiana che cerca una sua strada, come si può vedere dal proliferare di eventi. Non possiamo che ricordarne solo alcuni: ancora nel 1944 a Roma la Galleria d’Arte Moderna, affidata alla giovanissima Palma Bucarelli, propone retrospettive di autori italiani come Filippo De Pisis e Medardo Rosso, oltre ad ospitare la grande arte europea moderna e contemporanea, con rinnovato amore per gli autori francesi; a Milano, nella galleria Ciliberti, Bruno Munari espone dipinti astratti.
Un anno dopo, l’ansia di ricostruzione e liberazione dai residui di regime conduce a processi d’epurazione; voglio ricordare quello di Arturo Martini: era stato lo scultore ufficiale del fascismo ma aveva anche condotto la scultura a vette difficili da eguagliare e di grande novità.
.La sua Donna che nuota sott’acqua, in marmo di Carrara, è un capolavoro d’irraggiamento spaziale in ogni direzione, priva com’è di un punto focale dominante; l’idea era venuta dalla visione del filmOmbre bianche di W. S. van Dyke (1928), sulle pescatrici di perle polinesiane, e riesce davvero a regalare l’impressione, rivoluzionaria per la materia plastica prescelta, di una figura immersa in un universo acquatico privo di centro. Gettato nello sconforto, prima di abbandonare la scultura Martini riesce a realizzare Il partigiano Masaccio come Palinuro, primo monumento italiano alla Resistenza. Non è così facile processare l’arte.
Lo sa bene Lionello Venturi, che nello stesso 1945 ritorna dall’esilio americano e riprende le sue lezioni e le sue conferenze: «si parla di storia dell’arte come di storia della libera attività del pensiero» [15], riproponendo l’astrattismo quale ineludibile cifra del linguaggio contemporaneo.
Nel 1946 nasce il Fronte nuovo delle arti, che dichiara per voce di Giuseppe Marchiori: «L’arte non è il volto convenzionale della storia, ma la storia stessa che degli uomini non può fare a meno» [16].
Nel frattempo, i rapporti fra Togliatti e gli artisti proseguono, come dimostra una famosa lettera inviata a Mario Mafai datata 22 febbraio 1945, su una linea di apparente conciliazione:«Desidero [...] precisarti che oggi non esiste una dottrina ufficiale del partito a proposito dei problemi dell’arte, e non può nemmeno esistere [...]. Sarebbe [...] non soltanto ingiusto, ma assurdo se ponessimo agli artisti l’accettazione di una determinata opinione come condizione per essere membri del partito. E gli artisti stessi non possono pensarlo. Noi sollecitiamo tutti gli artisti a collaborare alla nostra stampa discutendo le questioni che li interessano e la stessa difficoltà dei problemi ci consiglia la tolleranza» [17].
Sappiamo che le cose non procedettero in questa direzione. Nel 1947, Carla Accardi, Antonio Sanfilippo, Pietro Consagara, Ugo Attardi, Mino Guerrini, Piero Dorazio, Achille Perilli e Giulio Turcato, riuniti attorno alla rivista “Forma”, firmano il manifesto omonimo; in esso, dichiarazioni non solo estetiche: hanno bisogno di dirsi «formalisti e marxisti». Perché?
Da una parte gli artisti, che vivono una passione politica profonda nonostante la maggior parte di loro sia giovanissima, affrontano di petto la polemica che non la conservazione, ma la rivoluzione stessa (e nella fattispecie la rivoluzione marxista), da sempre, storicamente muove all’arte, “scegliendo la morale ed esiliando la bellezza”. Contro la convinzione razionalista e pragmatica, che l’unica arte possibile sia quella al servizio della rivoluzione, gli artisti di Forma dichiarano il loro senso di necessità e di concomitante rifiuto del reale, che si traduce nell’esigenza estetica di una «rivolta fabbricatrice di universi» [18], in virtù della quale il reale viene preso, frammentato, stilizzato, scelto, amato e rifiutato per dar vita a nuovi sensi, per fermare in una forma quanto continuamente sfugge e diviene nella Storia.
Dall’altra, è chiaro l’intento di ricucire – con una dichiarazione che pare amorosa e ingenua insieme – la spaccatura nata tra essi, la loro indipendenza e la politica culturale togliattiana, che nel frattempo si è fatta più integralista: nel 1948, l’inchiostro verde, raggrumato nella firma di Roderigo di Castiglia, etichetta come «raccolta di cose mostruose», «errori e scemenze», «scarabocchi», le opere degli artisti prima citati; non è un caso che nello stesso momento si proceda alla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci presso l’editore Einaudi, risistemandoli secondo uno schema tematico non estraneo a divulgare un’idea di rapporto strumentale del partito con gli intellettuali. Guttuso, indotto per fedeltà a Togliatti a litigare con i suoi antichi compagni d’arte e di lotta ma spaventato dall’acrimonia del “Migliore”, inutilmente declama i pregi del realismo socialista; che, d’altronde, per qualche anno dilagherà sul territorio nazionale in forma di “santini” con le effigi dei capi sovietici, grazie a una non lungimirante idea di Emilio Sereni.
Credo che sia stato questo il momento in cui la Resistenza per cui tanti avevano combattuto e che si era radicata come un mito nei cuori dei più giovani, diventò un modo d’essere dell’arte italiana. Ma se la battaglia continuava in ambito culturale, più profonda e assottigliata, per certi versi essa si faceva più infida. Sarebbe un ulteriore, difficilissimo capitolo da raccontare.
Anna Maria Panzera
Pubblicato il 24 aprile 2014 - Altritaliani.net


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