Palermo 30 marzo 2015 – Mercoledì la Cgil di Palermo ricorda, alle 18, a
Camporeale. Calogero Cangelosi, quarantunenne segretario della Camera del
Lavoro di Camporeale, ucciso dalla mafia del feudo. Era il 1° aprile
del 1948: Cangelosi fu fatto fuori, intorno alle 22,30, dopo che
quella sera alla Camera del lavoro si era parlato della conquista delle terre,
dell’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano al 60 per cento
ai contadini e al 40 per cento a proprietari terrieri, e della
concessione alle cooperative contadine delle terre incolte. Quattro
sindacalisti si offrirono di “scortare” a casa il dirigente, da tempo nel
mirino dei latifondisti del paese, cui davano fastidio le sue battaglie di
civiltà dalla parte dei contadini poveri. La sua richiesta dell’applicazione delle leggi della riforma agraria
avrebbe potuto incidere sul risultato delle elezioni in programma il
18 aprile. Ma sulla strada di casa, tra la via Minghetti e la via
Perosi, dove Cangelosi abitava con la moglie Francesca Serafino e i quattro
figli, dai 2 mesi agli 11 anni, decine di colpi sparati col mitra ad
altezza d’uomo si abbatterono sul gruppo.
LEGGI LA NOTA BIOGRAFICA SU CANGELOSI
Colpito alla testa e al petto,
Cangelosi cadde per terra, spirando all’istante. Anche Vincenzo Liotta e Vito
Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero,
invece, gli altri due Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Non fu mai bandito un
processo. Nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il
proprietario terriero “don” Serafino Sciortino, di cui Cangelosi era il
mezzadro, e che a sparare erano stati il capomafia Vanni Sacco e i
suoi “picciotti”, si procedette contro “ignoti”. LEGGI LA NOTA BIOGRAFICA SU CANGELOSI
Cangelosi è stato ucciso a pochi giorni di distanza da Placido
Rizzotto, eliminato a Corleone il 10 marzo 1948, e da Epifanio
Li Puma, ucciso a Petralia Sottana il 2 marzo dello stesso
anno. La cerimonia in suo ricordo, per il 67ettesimo anniversario
dalla sua scomparsa, si terrà mercoledì alle ore 18 nella piazza Calogero
Cangelosi di Camporeale. Interverranno Rosalia Bonura, Cgil di Camporeale, Dino
Paternostro, responsabile del dipartimento Legalità della Camera del
Lavoro di Palermo, e Enzo Campo, segretario della Cgil di Palermo.
“Cangelosi fa parte dei 36 morti che ha avuto la Cgil tra il ‘45 e il ‘66.
Nel ’48, con l’uccisione dei nostri tre dirigenti sindacali Cangelosi,
Rizzotto e Li Puma, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, si
concluse la reazione contro le punte più in vista del movimento
contadino nella Sicilia occidentale - dichiara Enzo Campo,
segretario generale della Camera del lavoro di Palermo -. L’antimafia ha
origini antiche, risale al periodo immediatamente successivo al
movimento contadino dei fasci siciliani, alla storia di questi pionieri
che, sapendo di essere nel mirino e completamente indifesi, si sono
battuti per portare avanti i loro ideali, gli ideali dei contadini e
della gente comune, rimettendoci la vita”. “Da quest’anno – aggiunge
Enzo Campo - la Cgil ha deciso di essere vicina per i loro
anniversari a tutti i suoi uomini caduti nella lotta alla mafia, riscoprendo
e mettendo in luce tutte le storie, anche quelle di personaggi meno conosciuti,
perché tutti meritano identico rispetto e di essere ricordati allo stesso modo.
L’esercizio della memoria è importante per orientarci nel presente”. Aggiunge
Dino Paternostro, responsabile dipartimento Legalità Camera del Lavoro di
Palermo: "L'antimafia sociale del movimento contadino e bracciantile è attuale
ancora oggi. Uomini come Calogero Cangelosi ci hanno indicato lo sviluppo nella
legalità e nella giustizia sociale come obiettivo da perseguire attraverso lo
strumento della cooperazione. Ed è quello che stanno facendo le cooperative che
lavorano sui terreni confiscati alla mafia".
NOTA BIOGRAFICA
NOTA BIOGRAFICA
Calogero Cangelosi, segretario della
Camera del lavoro di Camporeale
Era la sera del 1° aprile 1948. Non faceva più freddo e
la piazza di Camporeale pullulava di contadini, che discutevano animatamente
tra loro. In quei giorni, in paese, che con i suoi quasi 8 mila abitanti era un
importante comune del latifondo della provincia di Trapani, proprio al confine
con la provincia di Palermo (di cui avrebbe cominciato a far parte dal 1949),
l’argomento era sempre lo stesso: le elezioni politiche del 18 aprile e la
“lezione” che la povera gente avrebbe potuto dare a “lor signori”, i padroni
del feudo. Anche alla Camera del lavoro quella sera si era parlato di questo,
ed anche dell’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e
40 e della concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e mal
coltivate degli agrari. Poi, Calogero Cangelosi, quarantunenne segretario della
Camera del lavoro, guardò l’orologio, si accorse che si era fatto tardi e
salutò i presenti per tornare a casa. “Calogero, aspetta che ti accompagniamo
noi”, gli dissero Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero
Natoli. Il loro non fu un gesto di cortesia, ma un modo per proteggere il
dirigente sindacale, che era già nel mirino della mafia. L’offerta di una
“scorta”, insomma. Tutti e cinque uscirono dalla sede della Camera del lavoro,
che si trovava in piazza, e si avviarono verso via Perosi, dove Cangelosi
abitava con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli:
Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi.
Erano quasi arrivati, quando dalla parte alta di via Minghetti, che faceva
angolo con via Perosi, si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati
in rapida successione e ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo.
Colpito alla testa e al petto, Cangelosi cadde per terra, spirando all’istante.
Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente
illesi rimasero, invece, Calandra e Natoli. Erano le 22.30. Il rumore degli
spari attirò gente. Qualcuno capì quello che era accaduto ed andò di corsa a
chiamare i cognati del sindacalista ucciso e i parenti dei due feriti. Questi
ultimi furono trasportati all’ospedale, mentre Cangelosi fu portato nella casa
del suocero. La moglie Francesca stava allattando la piccola Vita, seduta su
una sedia, quando arrivò un fratello a chiamarla. Immediatamente lasciò la
neonata ad una vicina di casa e corse a casa del padre. Calogero era immobile
sul letto, col corpo perforato da decine di proiettili. Urla, scene di
disperazione. Poi arrivarono i carabinieri, fecero le domande di rito e
raccomandarono di non toccare il cadavere fino all’arrivo del magistrato per la
perizia.
Allora Camporeale
faceva ancora parte della provincia di Trapani e passarono ben quattro giorni
prima che un giudice del capoluogo si degnasse di mettere piede in paese. “Nel
mentre mio marito era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile”,
avrebbe poi raccontato la moglie. Finalmente si poterono svolgere i funerali, a
cui parteciparono tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario. In
mezzo a loro e accanto ai familiari di Cangelosi c’era anche il segretario
nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni, venuto a Camporeale, in
Sicilia, per onorare il compagno di partito, 36° sindacalista assassinato dalla
mafia negli anni del secondo dopoguerra, appena qualche giorno dopo Rizzotto a
Corleone e Li Puma a Petralia Sottana. Disperazione e rabbia si toccavano con
mano. “La sera del 16 aprile ’48 – racconta Nicola Cipolla, uno dei capi
contadini siciliani di quel periodo – al comizio di chiusura della campagna
elettorale, i mafiosi scomparvero tutti dalla piazza per paura dei contadini”.
Ed accadde un “miracolo”: il 18 aprile il “Fronte Democratico Popolare”,
composto dal Psi e dal Pci, fu sconfitto in tutta la Sicilia, ma non a
Camporeale, dove ottenne ancora più voti delle regionali del ’47. Fu l’ultimo
regalo di Calogero Cangelosi ai suoi contadini. Per l’omicidio la giustizia “ingiusta”
di allora non riuscì nemmeno ad imbastire un processo. Nonostante tutti
sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero “don”
Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capomafia Vanni
Sacco e i suoi “picciotti”, si procedette contro “ignoti”, che tali rimasero
per sempre. Poi sulla vicenda cadde il silenzio. Cangelosi era nato a
Camporeale nel 1906. Il 19 settembre 1935 si era sposato con Francesca
Serafino. Al momento del decesso lasciò quattro figli: Francesca di 11 anni,
Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. Era un contadino di poche
parole, ma pensava che, per il loro futuro e per quello di altri figli di
povera gente, valesse la pena di “forzare l’alba”, perché nascesse “il sol
dell’avvenire”. Calogero conosceva bene don Serafino Sciortino, grosso
proprietario terriero, di cui era mezzadro. E quando Cangelosi gli disse senza
mezzi termini che il grano bisognava dividerlo a 60 e 40 (60% ai contadini, 40%
ai proprietari), questi fece scattare la “punizione”.
Un giorno don Serafino invitò Cangialosi a casa sua per
un “ragionamento”, ma ad attenderlo c’erano Vanni Sacco e i suoi uomini, che lo
sequestrarono, con l’intenzione poi di ucciderlo, come la mafia di Corleone
aveva fatto con Rizzotto. Fortunatamente, qualcuno avvisò i contadini della
Camera del lavoro del luogo in cui Calogero era tenuto prigioniero e un
“commando” di compagni, armati di lupare, riuscì a liberarlo. Qualche mese
dopo, non fu più così. Ecco come ne parla la figlia Francesca: “Ero piccola
allora. Avevo appena 11 anni. Ricordo che quando mio padre tornava a casa, si
avvicinava sempre ai nostri lettini e, se eravamo scoperti, ci copriva con
tanta tenerezza. Questo lo ricordo perché, a volte, io facevo solo finta di
dormire. Mio padre era una persona buona, che faceva bene a tutti”.
La vedova, Francesca Serafino, che, dagli anni ’60 abita
a Grosseto con i figli, ha rievocato così le ore drammatiche, immediatamente
successive alla morte del marito, nell’intervista rilasciata il 24 maggio 2003 a Gabriella Ebano, non
ha dimenticato che tennero in casa il corpo del marito morto per ben quattro
giorni, fino a quando il magistrato non si decise a recarsi da Trapani a
Camporeale per il sopralluogo di rito. E non è riuscita a dimenticare neppure
che il parroco del paese non voleva nemmeno autorizzare la celebrazione dei
funerali in chiesa. “Ma mio marito era socialista, non era comunista!”, dovette
dirgli, ingenuamente, Francesca per convincerlo.
Gli assassini del marito non è disposta a perdonarli:
“Come si può perdonare… forse il Signore può perdonare”, ha detto alla
scrittrice, che ha inserito l’intervista nel volume Felicia e le sue sorelle.
“Quando me lo hanno portato via – povera anima del Paradiso! – io non avevo
niente, non possedevo nulla, se non un affitto da pagare e quattro figli da
sfamare”, racconta. E aggiunge: “Il sangue di mio marito, le ferite, guarda
quanti buchi! Quando è morto gli cambiavamo le camice e lui buttava sempre
sangue… le ferite le baciavamo tutte io e mia suocera, il sangue usciva,
usciva, passava a fiumi il sangue… Questa cravatta la portava il giorno che
morì: guarda quanti buchi! Uno, due, tre, quattro, cinque! […] Sono stata
costretta ad andare in campagna a lavorare con gli uomini. Ricordo ancora i
calli alle mani, le fatiche che ho dovuto sopportare. Ma i miei figli
piangevano, volevano il pane, volevano le scarpe, ed io non sapevo più come
aiutarli”. “Mio marito – dice ancora – era iscritto al partito socialista e
allora questo era considerato un reato. Lo avevano minacciato, ma lui mi diceva
di non preoccuparmi perché non faceva male a nessuno. Calogero era un uomo
sincero: quando è morto ha pianto tutto il paese. Ho cercato di ottenere una
pensione minima, ma non ci sono riuscita. Poi, su consiglio di mio fratello, ci
trasferimmo a Grosseto, dove abitiamo tutt’ora”.
Ma attingiamo
ancora ad altri “fotogrammi” dei ricordi di Francesca: “Legge non ne hanno
fatta. Il processo per mio marito non l’hanno fatto! Io sono andata al mio
paese, dalla legge, e ci ho detto così: “A mio marito lo hanno ucciso e io
voglio giustizia!”. Mi rispose il maresciallo: “Signora, se ne vada a casa, a
noi non si comanda! Comanda la mafia! A chi ha ucciso suo marito gli hanno dato
quattro tumuli di frumento”. Quattro tumuli di frumento per ammazzare una
persona! Allora io, non contenta, con i miei fratelli… andai ad Alcamo a
ripetere la stessa cosa: “Voglio la legge, che a mio marito l’hanno ucciso!”.
La stessa cosa che a Camporeale: “Signora, a noi si comanda. Comandano loro, la
mafia! Suo marito l’hanno ucciso per quattro tumuli di frumento”. Come mi
dissero al mio paese, mi dissero ad Alcamo”. Non c’era legge e non c’era
giustizia, allora, nei paesi del feudo, dominati dagli agrari e dalla mafia. E
nessuno pagò per il delitto Cangelosi Né
il capomafia di Camporeale, Vanni Sacco, né don Serafino Sciortino, di cui
Cangelosi era mezzadro. “Un giorno – ha raccontato ancora la vedeva a Gabriella
Ebano – lo chiama uno – io ero davanti la porta, seduta al sole con mio marito
– e gli dice: “Calogero, ti vuole parlare don Serafino, ma non passare nella
strada principale, vieni dalla campagna”. Ed io ho detto a mio marito: ”Ma che
cosa vuole questo?”. Io allattavo la bambina piccola, che aveva tre mesi. Mio
marito avvisò tutti i compagni del Partito socialista, della sezione. (Forza
Signore, forza per raccontare…) Mio marito tardava e i compagni stavano in
pensiero. Allora tutti armati di scopette [fucili] andarono in questa casa di
campagna a cercare mio marito e arrivati bussarono: “Noi vogliamo Cangelosi!”.
E quelli risposero che Cangelosi non c’era. “Non c’è? Chissà cosa succederà!?”.
E mentre i compagni aspettavano, lì, sotto il portone, dentro le stanze c’erano
i mafiosi... “Se tu ti levi dal partito ti mandiamo in America, l’America
Argentina, o se vuoi ti facciamo la cavalla, se tu abbandoni la politica”. Ma
mio marito rinunciò a questa offerta… Erano tutti dentro le stanze, i mafiosi,
e chiamarono don Serafino. Mio marito me lo raccontò dopo. Intanto i compagni
della sezione lo aspettavano. “Mandate Cangelosi, altrimenti succederanno cose
brutte stasera!”. Il proprietario di questo appartamento fece uscire la moglie.
Chissà che dovevano fare! Ma quando lui capì, fece chiamare la moglie che era
da una parente e fecero andare fuori mio marito, nella campagna. Ma se non
usciva, avevano pronta una macchina per portarlo via come Rizzotto”. “Questo è
avvenuto quattro giorni prima che l’uccidessero”, ricorda Francesca.
Dino Paternostro
Pubblicata ap. "Una strage ignorata. Sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia in Sicilia, 1944-48" - 2014 Agra Editrice
Nessun commento:
Posta un commento