L'assassinio di Piersanti Mattarella, fratello di Sergio |
di SAVERIO LODATO
1 febbraio
2015
Una parabola
limpida durata oltre quarant’anni che si conclude oggi con la nomina a Capo
dello Stato e con una schiacciante maggioranza che però, ed è un bene, non
è maggioranza bulgara, a riprova del fatto che il nome era forte, convincente,
difficilmente discutibile. Ma anche, e questo non è un male, non era un nome
buono per tutte le stagioni, quindi condivisibile da tutti.
Qualcuno, alla
vigilia, aveva voluto evidenziare scenari remoti, parentele imbarazzanti,
contesti siciliani arcaici, perché è giusto che tutto si sappia e neanche la
più piccola ombra deve offuscare l’illibatezza della moglie di Cesare. Corretto
averlo fatto, per il bene dell’informazione, ma, tirate le somme, è rimasto il
dato che il nome di Sergio Mattarella non era offuscabile, non aveva le
ali zavorrate dal piombo dei sospetti, rispecchiava al contrario una vicenda
umana e politica limpida, come dicevamo all’inizio. I commentatori che oggi
tratteggiano il ritratto del tredicesimo presidente della Repubblica italiana
quando, procedendo a ritroso, si imbattono negli albori della carriera politica
di questo che era allora un giovane dirigente democristiano intenzionato a
farsi largo nella fossa dei leoni dello scudocrociato andreottiano,
rappresentato da big quali Salvo Lima, Vito Ciancimino, Luigi Gioia, Nino
Gullotti, gli imprenditori Nino e Ignazio Salvo, il conte Arturo
Cassina, i cavalieri del lavoro di Catania, i Graci, i Rendo, i Costanzo, i
Finocchiaro, gente che teneva tra i denti il coltello delle preferenze e
degli appalti, i commentatori, dicevamo, sembra che siano portati
istintivamente a sorvolare.Si sa che la materia siciliana è scabrosa per definizione, a volte enigmatica a volte sfuggente a volte inesplicabile. Ma è proprio da quella fossa dei leoni in cui si aggirava un giovane democristiano con l’andatura di un agnello apparentemente indifeso, che si deve ripartire se si vuole capire come abbia fatto quell’agnello a farsi largo tanto da diventare oggi il capo dello Stato.
Scrivo
questo brevi considerazioni con un pizzico di emozione, dovuta al fatto di
avere conosciuto Sergio Mattarella oltre quarant’anni fa, di averci
lavorato politicamente insieme – e dirò perché – di averne sondato tempra e carattere,
in anni davvero lontani che annunciavano, ma questo lo si sarebbe visto dopo,
quell’inferno mafioso siciliano scandito dalle uccisioni di Cesare
Terranova, che tornava a fare il giudice a Palermo dopo la parentesi della
commissione antimafia, di Piersanti Mattarella, il presidente della
Regione siciliana, fratello di Sergio; di Gaetano Costa, procuratore capo di
Palermo; di Pio La Torre, segretario del PCI siciliano, del generale Carlo
Alberto dalla Chiesa, eccetera, eccetera, eccetera.
Nel 1976 avevo 25 anni, non facevo ancora il cronista. Ero iscritto al PCI, del quale ero diventato giovane dirigente dopo una lunga parentesi nella federazione giovanile, e fu Mario Barcellona, dirigente comunista molto più avanti negli anni e più esperto di me, deputato all’assemblea regionale, a volermi indicare, per subentrare al posto suo, quale consigliere di amministrazione dell’Opera Universitaria di Palermo – l’ente che si occupava della gestione del diritto allo studio (presalario, stanze, mensa per gli aiuti agli studenti fuori sede che alloggiavano al pensionato San Saverio) – , in quota Pci. Ricordo, fra gli altri, un giovane Leoluca Orlando, che negli anni ha mantenuto uno strettissimo rapporto con Mattarella, in rappresentanza del personale docente dell’ Università; Francesco Tornatore, in rappresentanza degli studenti universitari; il professore Antonello Laconi, radiologo, in rappresentanza dei cattedratici; un professore di ingegneria, non ne rammento più il nome, in rappresentanza dei socialisti, l’avvocato Nino Todaro, in rappresentanza della DC … E dovrebbero essere tutti, se la memoria non mi sta facendo scherzi.
Presidente dell’Opera Universitaria, era Sergio Mattarella.
Come erano le riunioni di quel consiglio di amministrazione? Ne ho serbato ricordo perché erano estenuanti, sino allo sfinimento, proprio a causa della gestione Mattarella. Era uomo zelante e puntiglioso, con innegabili doti di amministratore, sostenuto da studi giuridici ferrei, attentissimo alle offerte dei venditori dei servizi per l’Opera universitaria, alle cifre, e, cosa che non guastava, alle provenienze sociali e familiari dei fornitori stessi che, qualche volta, erano in odor di mafia, se non addirittura mafiosi essi stessi. Va detto che in oltre un anno di attività, grazie alla gestione oculata di Mattarella, neanche una delle centinaia delle delibere che approvammo diede seguito a conseguenze giudiziarie. Eppure, a un certo punto, i socialisti decisero di dare l’assalto all’Opera universitaria, rivendicandone la direzione.
Fu così che un pomeriggio ricevetti una telefonata di Mattarella che chiedeva di incontrami. Venne a trovarmi a casa e con estrema tranquillità mi annunciò che, di lì a poco, si sarebbe dimesso perché non intenzionato a finir dentro il pentolone di polemiche che scaturivano dalle ambizioni di potere di qualcuno. Venne a dirlo a me perché – pur essendo io comunista e lui democristiano – avevamo lavorato bene insieme in un rapporto di vicendevole fiducia. Trascorremmo insieme più di un’ora, nel tentativo, da parte mia, di convincerlo a ignorare il polverone che lo riguardava e a soprassedere rispetto alle dimissioni. Non ci fu verso. Era venuto a trovarmi per comunicarmi una decisione presa, non per discuterla con me. Poi, ci perdemmo di vista.
Nel giorno nero dell’Epifania del 1980 quando arrivai, insieme al direttore de L’Ora, Nicola Cattedra, giornale in cui avevo iniziato il mio apprendistato giornalistico, in via Libertà sul luogo in cui suo fratello Piersanti era stato massacrato, lui non c’era già più.
Lo rividi il 17 aprile del 1982 in occasione di un intervista all’Unità - giornale nel quale adesso lavoravo – (pubblicata il 18 aprile), in cui Mattarella si schierò apertamente contro l’installazione della base missilistica Cruise a Comiso. Fu in intervista che ebbe una forte eco. Per nulla gradita, come fu, dai plenipotenziari Dc di allora, che invece erano favorevoli alla base.
Si apriva con queste parole: “Sarebbe triste, molto triste, installare ordigni nucleari e simboli di guerra, in una zona dove fino a oggi la natura con il contributo dell’intelligenza e della passione degli uomini, ha potuto esprimersi senza costrizioni”. E proseguiva: “I partiti non hanno ancora pienamente dato risposta a quest’ansia di pace”.
Pio La Torre, che in quel momento era segretario dei comunisti siciliani, capì immediatamente il forte segnale che arrivava da quella parte della Dc siciliana finalmente “pulita” e non compromessa con il sistema di potere politico mafioso. C’era stata, appena due settimane prima, la manifestazione dei “centomila” a Comiso, voluta proprio da La Torre, mentre il cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo, ricorreva a versetti della Bibbia per dire il no della Chiesa siciliana ai missili Cruise e lo stesso Orlando, poco prima di Mattarella, mi aveva rilasciato un’altra intervista che aveva ulteriormente rafforzato la tessitura di quel vasto sistema di alleanze che ormai non risparmiava più nessun partito.
Poi, anche La Torre, e forse proprio per il suo impegno pacifista, venne stroncato dal piombo mafioso ispirato da mandanti internazionali pagando, anche lui, come Piersanti Mattarella, il bilancio di un’intera esistenza politica.
Concludendo. Non è vero che Sergio Mattarella abbia attraversato “in silenzio” quegli anni siciliani di tragedia. Fece quello che a suo giudizio andava fatto. Disse poche parole, ma pesanti come pietre. E non è un caso che fu uno dei sostenitori più determinati di quella primavera di Palermo che ebbe in Orlando il suo sindaco simbolo. L’agnello aveva un cuore da leone, questa è la verità. E in pochi l’avevano capito.
Poi va detto, e da giornalista ho trovato questa sua scelta letteralmente meravigliosa, non ha mai speculato o cavalcato l’inevitabile onda emotiva che scaturì dal giorno nero dell’Epifania 1980. Insomma: non si fregiò mai del titolo di “fratello” di Piersanti per cercare scorciatoie politiche e sull’argomento non rilasciò mai interviste o dichiarazioni a effetto.
Ci sarà modo di tornare sulle convergenze politiche che hanno portato alla sua designazione. Oggi volevamo soltanto spiegare l’aforisma che abbiamo pubblicato su Antimafiaduemila la sera della vigilia della sua elezione: “E’ altamente improbabile che gli italiani un giorno dovranno vergognarsi di un Capo dello Stato che si chiama Sergio Mattarella“. Ne siamo convinti. L’augurio è che i big di partito che lo hanno eletto sappiano davvero chi hanno eletto. Il resto si vedrà
Nel 1976 avevo 25 anni, non facevo ancora il cronista. Ero iscritto al PCI, del quale ero diventato giovane dirigente dopo una lunga parentesi nella federazione giovanile, e fu Mario Barcellona, dirigente comunista molto più avanti negli anni e più esperto di me, deputato all’assemblea regionale, a volermi indicare, per subentrare al posto suo, quale consigliere di amministrazione dell’Opera Universitaria di Palermo – l’ente che si occupava della gestione del diritto allo studio (presalario, stanze, mensa per gli aiuti agli studenti fuori sede che alloggiavano al pensionato San Saverio) – , in quota Pci. Ricordo, fra gli altri, un giovane Leoluca Orlando, che negli anni ha mantenuto uno strettissimo rapporto con Mattarella, in rappresentanza del personale docente dell’ Università; Francesco Tornatore, in rappresentanza degli studenti universitari; il professore Antonello Laconi, radiologo, in rappresentanza dei cattedratici; un professore di ingegneria, non ne rammento più il nome, in rappresentanza dei socialisti, l’avvocato Nino Todaro, in rappresentanza della DC … E dovrebbero essere tutti, se la memoria non mi sta facendo scherzi.
Presidente dell’Opera Universitaria, era Sergio Mattarella.
Come erano le riunioni di quel consiglio di amministrazione? Ne ho serbato ricordo perché erano estenuanti, sino allo sfinimento, proprio a causa della gestione Mattarella. Era uomo zelante e puntiglioso, con innegabili doti di amministratore, sostenuto da studi giuridici ferrei, attentissimo alle offerte dei venditori dei servizi per l’Opera universitaria, alle cifre, e, cosa che non guastava, alle provenienze sociali e familiari dei fornitori stessi che, qualche volta, erano in odor di mafia, se non addirittura mafiosi essi stessi. Va detto che in oltre un anno di attività, grazie alla gestione oculata di Mattarella, neanche una delle centinaia delle delibere che approvammo diede seguito a conseguenze giudiziarie. Eppure, a un certo punto, i socialisti decisero di dare l’assalto all’Opera universitaria, rivendicandone la direzione.
Fu così che un pomeriggio ricevetti una telefonata di Mattarella che chiedeva di incontrami. Venne a trovarmi a casa e con estrema tranquillità mi annunciò che, di lì a poco, si sarebbe dimesso perché non intenzionato a finir dentro il pentolone di polemiche che scaturivano dalle ambizioni di potere di qualcuno. Venne a dirlo a me perché – pur essendo io comunista e lui democristiano – avevamo lavorato bene insieme in un rapporto di vicendevole fiducia. Trascorremmo insieme più di un’ora, nel tentativo, da parte mia, di convincerlo a ignorare il polverone che lo riguardava e a soprassedere rispetto alle dimissioni. Non ci fu verso. Era venuto a trovarmi per comunicarmi una decisione presa, non per discuterla con me. Poi, ci perdemmo di vista.
Nel giorno nero dell’Epifania del 1980 quando arrivai, insieme al direttore de L’Ora, Nicola Cattedra, giornale in cui avevo iniziato il mio apprendistato giornalistico, in via Libertà sul luogo in cui suo fratello Piersanti era stato massacrato, lui non c’era già più.
Lo rividi il 17 aprile del 1982 in occasione di un intervista all’Unità - giornale nel quale adesso lavoravo – (pubblicata il 18 aprile), in cui Mattarella si schierò apertamente contro l’installazione della base missilistica Cruise a Comiso. Fu in intervista che ebbe una forte eco. Per nulla gradita, come fu, dai plenipotenziari Dc di allora, che invece erano favorevoli alla base.
Si apriva con queste parole: “Sarebbe triste, molto triste, installare ordigni nucleari e simboli di guerra, in una zona dove fino a oggi la natura con il contributo dell’intelligenza e della passione degli uomini, ha potuto esprimersi senza costrizioni”. E proseguiva: “I partiti non hanno ancora pienamente dato risposta a quest’ansia di pace”.
Pio La Torre, che in quel momento era segretario dei comunisti siciliani, capì immediatamente il forte segnale che arrivava da quella parte della Dc siciliana finalmente “pulita” e non compromessa con il sistema di potere politico mafioso. C’era stata, appena due settimane prima, la manifestazione dei “centomila” a Comiso, voluta proprio da La Torre, mentre il cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo, ricorreva a versetti della Bibbia per dire il no della Chiesa siciliana ai missili Cruise e lo stesso Orlando, poco prima di Mattarella, mi aveva rilasciato un’altra intervista che aveva ulteriormente rafforzato la tessitura di quel vasto sistema di alleanze che ormai non risparmiava più nessun partito.
Poi, anche La Torre, e forse proprio per il suo impegno pacifista, venne stroncato dal piombo mafioso ispirato da mandanti internazionali pagando, anche lui, come Piersanti Mattarella, il bilancio di un’intera esistenza politica.
Concludendo. Non è vero che Sergio Mattarella abbia attraversato “in silenzio” quegli anni siciliani di tragedia. Fece quello che a suo giudizio andava fatto. Disse poche parole, ma pesanti come pietre. E non è un caso che fu uno dei sostenitori più determinati di quella primavera di Palermo che ebbe in Orlando il suo sindaco simbolo. L’agnello aveva un cuore da leone, questa è la verità. E in pochi l’avevano capito.
Poi va detto, e da giornalista ho trovato questa sua scelta letteralmente meravigliosa, non ha mai speculato o cavalcato l’inevitabile onda emotiva che scaturì dal giorno nero dell’Epifania 1980. Insomma: non si fregiò mai del titolo di “fratello” di Piersanti per cercare scorciatoie politiche e sull’argomento non rilasciò mai interviste o dichiarazioni a effetto.
Ci sarà modo di tornare sulle convergenze politiche che hanno portato alla sua designazione. Oggi volevamo soltanto spiegare l’aforisma che abbiamo pubblicato su Antimafiaduemila la sera della vigilia della sua elezione: “E’ altamente improbabile che gli italiani un giorno dovranno vergognarsi di un Capo dello Stato che si chiama Sergio Mattarella“. Ne siamo convinti. L’augurio è che i big di partito che lo hanno eletto sappiano davvero chi hanno eletto. Il resto si vedrà
*tratto da
antimafiaduemila.com per gentile concessione dell’autore
*la foto del
delitto Mattarella è di Letizia Battaglia
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