martedì, febbraio 17, 2015

QUANDO L’ITALIA AVEVA UNA POLITICA ESTERA

di Agostino Spataro
La crisi libica e i frettolosi propositi interventisti annunciati (anche se opportunamente, “calmierati” dalle odierne dichiarazioni del presidente del Consiglio, Matteo Renzi) ripropongono la necessità di una riflessione sulla politica estera italiana per come è venuta evolvendo (?) durante questa lunga e confusa transizione in cui sono cambiati (in peggio) l’approccio, la concezione, gli obiettivi delle relazioni internazionali dell’Italia, dell’Europa verso il mondo arabo e altre regioni del Pianeta. Con la cd. “seconda” Repubblica, si è, infatti, passati dal dialogo alla sfiducia, al conflitto. 
Un bel "capolavoro", insomma, che contrasta con l’immagine di un’Italia solidale e popolare che, nel rispetto delle alleanze internazionali, riusciva (nella “prima”) a esprimere una politica estera, ampiamente condivisa in Parlamento, aperta al dialogo e alla cooperazione economica, in primo luogo con i Paesi dello scacchiere arabo e mediterraneo.
Una politica di pace che generava nuove occasioni d’incontro, favoriva la penetrazione in nuovi mercati e commesse importanti per le imprese italiane. Le buone relazioni politiche e culturali italo - arabe erano la chiave di volta per accrescere il volume degli scambi economici e commerciali.
Insomma, il dialogo pagava e assicurava all’Italia un ruolo primario nell’area arabo-mediterranea, anche in campo economico.
Nostalgia? Confesso che un pò c'è pure. Ma ciò che più mi preme è il desiderio di vedere cambiare le cose nel senso richiesto dalla maggioranza del popolo italiano che non vuole la guerra, ma un cambio della nostra politica estera che specie verso questo scacchiere si è progressivamente militarizzata con risultati doppiamente in perdita. Infatti, alle ingenti spese per finanziare missioni militari bisogna aggiungere i dati della crescita del deficit commerciale. Oltre, naturalmente, i nuovi rischi, in termini di sicurezza, cui si espone il Paese, come insegna l’attuale crisi libica.

Dal dialogo la pace e la prosperità, dalla guerra morte, miseria e nuove migrazioni  
Sotto questo profilo, il caso italiano è esemplare. Basterebbe fare qualche conto e alcuni confronti fra le bilance commerciali di allora e di oggi per capire le cause dell’attuale svantaggio italiano e scoprire la differenza che corre fra il dialogo e la chiusura razzistica o, se si preferisce, fra la cooperazione pacifica e lo scontro di civiltà. La tanto biasimata “prima Repubblica”, specie nel periodo a cavallo fra gli ’70 e ’80, produsse una politica estera equilibrata, lungimirante e ampiamente condivisa di cui va dato merito ai tre grandi partiti popolari (Dc, Pci e Psi) e ai loro più prestigiosi dirigenti: Aldo Moro, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Giancarlo Pajetta, Bettino Craxi, Riccardo Lombardi.
La lista è breve perché, per il periodo considerato, non vedo altri che vi possano degnamente figurare.
Ovviamente, con ciò non si vuol mitizzare nessuna delle personalità sopra citate o sostenere che quello fu un periodo aureo per l’Italia.  I problemi c’erano ed anche gravi: dall’attacco ai diritti sociali dei lavoratori alla sicurezza e all’ordine pubblici, dal clientelismo alla corruzione, ecc. 
Il Pci li affrontò, dall’opposizione, con determinazione e con grandi mobilitazioni popolari, e con chiarezza di obiettivi, riconducendoli all’esigenza di un cambiamento della prospettiva generale del Paese che se fosse avvenuto avrebbe evitato il declino economico e morale in cui è stato trascinato. 
Con tale richiamo ho voluto ricordare che, nonostante tutto, in quegli anni cruciali, l’Italia riuscì a ritagliarsi un ruolo relativamente autonomo in politica estera. Un ruolo proporzionato alle sue potenzialità, senza grandi pretese, orientato al dialogo fra gli Stati, al sostegno del diritto alla sovranità dei popoli ancora irredenti, in primo luogo, di quello martire di Palestina che sostenemmo senza mai deflettere dalla difesa del diritto all’esistenza d’Israele entro i confini riconosciuti dalle Nazioni Unite.  La questione è ancora insoluta per una serie di ragioni, fra cui la “cattiva abitudine” dei governanti israeliani di fuoriuscire dagli ambiti territoriali loro attribuiti dall’Onu e di non volervi  rientrare.
Seguendo la linea della giustizia e della legalità internazionali, contribuimmo a rafforzare la pace nello scacchiere arabo-mediterraneo e, cosa di non poco conto, a tutelare il nostro Paese da rischi micidiali, creando, al contempo, importanti occasioni di scambio, reciprocamente vantaggiosi.
Insomma, un nuovo scenario di convivenza pacifica, di rispetto e di mutua comprensione, di fervore collaborativo, solidaristico all’interno del quale s'individuò perfino una prospettiva seria di proiezione internazionale, di crescita per il nostro Mezzogiorno, oggi ricacciato ai margini dello sviluppo, assillato dalla criminalità e ridotto a mero deposito di risorse energetiche al servizio del centro-nord ipersviluppato.

Il cambio di “nemico”: dall’Urss al terrorismo islamico
Sappiamo che, spesso, i confronti non sono graditi, ma non si può negare che, ieri, l’Italia, col concorso di tutte le forze di progresso, dei lavoratori e degli imprenditori, raggiunse primati davvero eccezionali, fino al punto di figurare fra le prime sette potenze industriali del pianeta.
Mentre oggi è in recessione da lungo tempo. Il populismo e il “patriottismo” di bottega, per altro molto costoso, stanno bruciando gran parte di quei risultati e avviato il Paese su una china molto preoccupante sul terreno politico e su quello della coesione sociale.
Perché questo cambiamento di rotta, di ruolo?
La risposta non è facile, anche se si possono intravedere le cause e gli interessi (anche esterni) che l’hanno determinato. Il tema, per altro, è molto ampio e non può essere affrontato con fredde analisi individuali.
Servirebbe una seria riflessione, un dibattito pubblico (non televisivo, per favore!) affinché, anche facendo tesoro di quell'esperienza, si possa re-impostare la politica estera italiana ed europea su canoni più rispondenti ai nostri e non agli altrui bisogni.
Poiché, in fondo, questo è il vero problema!
Certo, i tempi cambiano e così gli scenari, gli attori della politica internazionale, tuttavia consiglio di non disperdere quel patrimonio, quell’esempio creativo, fatto di saggezza e lungimiranza, sperimentato nella “prima Repubblica” che consentirono, dialogando con tutti (con arabi e israeliani, con Usa e Urss, ecc), di delineare un ruolo originale dell’Italia, di  scongiurare nuovi conflitti e di evitare che il nostro paese ne restasse coinvolto.
Oggi, invece… Non è il caso di personalizzare le responsabilità. La questione è d’indirizzo politico generale e attiene ai doveri dei ceti dirigenti del Paese, politici e no. 
L’Italia non può restare impantanata a organizzare, su richiesta, solo missioni militari “umanitarie”, partecipazioni a conflitti sanguinosi interminabili, a vendere e acquistare costosi sistemi d’arma, a minacciare, promuovere nuove guerre con i nostri vicini.
E dire che con il crollo dell’Urss fu promesso l’avvento del regno della libertà e della pace perpetua!
In realtà, la guerra da “fredda” è divenuta “calda” anche in Europa (il conflitto in Ucraina è davvero inquietante). C’è stato solo un cambio di “nemico”: ieri era il Patto di Varsavia, oggi è il terrorismo, vero o presunto, spesso artefatto secondo i disegni geo- strategici. 
Se non vogliamo restare condannati a vivere nella paura, a combattere contro il nuovo “nemico” chissà per quanto tempo, se vogliamo progredire e aprirci al mondo nuovo che sta sorgendo sono necessarie una nuova politica estera italiana ed europea e una svolta sul terreno dell’economia e della questione sociale.
(16 febbraio 2015)

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