di MARIA STELLADORO
Il
monachesimo italo-greco in Sicilia è stato «il lievito prima di divenire il
reliquiario delle tradizioni bizantine». Esso, infatti, ebbe la sua massima
fioritura nel Meridione d’Italia tra i secc. IX-X/XI dando vita a
quell’agiografia nella quale operarono santi siciliani, che, come ricordava la
compianta Enrica Follieri, costituiscono «un capitolo nuovo dell’agiografia italogreca».
Propagarono
tale monachesimo alcuni santi monaci esuli dalla Sicilia islamica per vari
motivi, fra i quali l’esigenza di sfuggire alla dominazione musulmana e
raggiungere terre cristiane per praticarvi con più tranquillità l’ascesi e
vivere la propria fede liberamente. Tuttavia non bisogna trascurare altre
cause, come ad es. le conseguenze economiche di tale conquista: la conseguente
crisi economica, la carestia e gli eventi luttuosi che colpirono la Sicilia
islamica di quel periodo; la profonda predilezione, tipica del monachesimo
bizantino, per la vita eremitica ed itinerante. Infatti tali monaci erano un
poco cenobiti, un poco eremiti, forse più eremiti che cenobiti: l’esodo sarebbe
stato motivato proprio dalla ricerca di quella quiete indispensabile per la
vita ascetica. Infatti i santi monaci italo-greci dei secoli IX-X/XI, erano dei
santi eremiti piuttosto indipendenti, carismatici, poco inclini a sopportare la
vita di comunità, non tanto perché impediti dalle continue scorrerie saracene, quanto
perché desiderosi di vivere in solitudine, in contemplazione e in ascesi
durissima. Non si può fissare una netta demarcazione fra le varie forme di vita
del monachesimo orientale dal momento che il monaco di un monastero cenobitico
può lasciare il convento e condurre, poco lontano, in una grotta o in una
caverna, in prossimità di un monastero, dal quale l’anacoreta dipende, vita
ascetica per rientrare in seguito nel cenobio, come Saba o Macario di
Collesano.
La storia
culturale del monachesimo ellenofono nell’Italia Meridionale attesta pure una
presenza assai precoce della normativa studita, come ad es. nel fatto che
Fantino e Nilo sottopongono Stefano, discepolo di quest’ultimo, a una delle
prescrizioni dell’ uJpotuvpwsi" studita: il monaco Stefano, colpevole di
avere rotto una pentola nell’esicasterio, è invitato nel cenobio per restare in
piedi nel refettorio con i cocci appesi al collo. Queste agiografie, pur
delineando un itinerario monastico cenobitico, non recano, tuttavia, modelli di
santità che svalutano l’esperienza eremitica, né sono sfavorevoli alla
taumaturgia, tipica dell’esichia, e diffidente invece all’agiografia studita. Tali
testimonianze agiografiche non presentano i caratteri topici dell’agiografia di
ispirazione studita e in questa prima fase di rinnovamento cenobitico il
monachesimo italo-greco, nella sua insopprimibile tensione verso l’esichia, è
stato più studita nelle forme esteriori che non nello spirito: ad es. il fatto
che l’igumeno fosse solito vivere in esichia (tratto, questo, tipicamente
pre-studita) sarebbe sintomatico di un’endemica refrattarietà al massimalismo
cenobitico propugnato dall’igumeno di Stoudios.
Le scelte di
vita di tali monaci italo-greci oscillano quindi tra eremitismo e cenobitismo:
due forme da mettere forse in relazione con le incursioni dei Saraceni, che
avrebbero provocato la fuga dei monaci nelle regioni più interne? Anche se
colpisce come il minaccioso Leitmotiv delle
vite dei santi monaci italo-greci, vissuti tra i secc. IX e X/XI, sia
costituito dalle scorrerie saracene, tuttavia questa ricerca di luoghi lontani
dall’indiscrezione umana ci sarebbe stata anche se non ci fossero state le
incursioni dei Saraceni, in quanto antica e secolare vocazione dei santi
monaci, che risaliva addirittura ai Padri del deserto.
E’ pure vero
che una persecuzione sistematica vera e propria in Sicilia non ci fu e che,
entro certi limiti, tollerati dalla legislazione, negli stati musulmani, in
Sicilia fu rispettata la libertà di culto, che permise al cristianesimo di sopravvivere
pur lottando. Ciononostante nei secc. IX-X/XI la condizione di sconvolgimento
della Sicilia sotto il dominio musulmano era tanta e tale da indurre questi
monaci, spronati dalle tribolazioni del momento, ad una profonda meditazione
sui sentieri di Dio e ad incitarli ad un più rigido ascetismo nella Calabria,
facendone appunto una nuova Tebaide,
dove si accorreva anche dall’Egitto.
Un comune tovpo" agiografico di alcune Vitae di questi santi monaci italo-greci (secc.IX-X/XI) è
costituito dal medesimo schema biografico (origine siciliana, fuga dall’isola,
approdo in Calabria, fondazione di un cenobio) e dall’iniziazione alla vita
monastica nel monastero basiliano di S. Filippo di Agira. Per alcuni monaci
italo-greci, un altro tovpo" agiografico
è nella presenza di un cenobiarca e/o asceta più o meno noto, come ad es.:
Cristoforo (maestro di Leone Luca di Corleone), Ignazio, Arsenio e Cosma
(maestri di Elia di Reggio), (maestro di Cristoforo e Saba di Collesano),
Giovanni e Zaccaria (maestri, assieme a Fantino, di Nilo di Rossano al Mercurion), Giovanni, vescovo di Stilo
(maestro di Giovanni Teriste o Terista), Anania (maestro di Nicodemo da
Kellàrana?), Oreste (maestro di Filareto il Giovane), Cirillo e Biagio (maestri
di Bartolomeo di Simeri), Elia (maestro di Fantino il Giovane).
Segue uno schema fisso l’agiografia di alcuni di questi santi monaci (secc. IX-X/XI), quali ad es.: Leone Luca di Corleone, Elia di Enna, Elia lo Speleota (nato fuori dell’Isola: a Reggio Calabria ma che ebbe contatti con la Sicilia), Luca di Armento, Vitale di Castronuovo, Cristoforo di Collesano e i suoi figli Macario e Saba, Nicodemo da Kellàrana.
Parlare di loci communes non nega l’interesse che possono assumere; anzi sono di particolare rilievo, in quanto contribuiscono a definire significativamente l’ideale di santità che l’agiografo intende proporre.
Eppure, queste Vitae sono diverse tra loro per lo spessore culturale, la struttura narratologica e la qualità della scrittura, né è riscontrabile in esse un sostrato comune di mentalità e di referenti culturali. Ad es. la Vita di s. Elia di Enna è ancora influenzata dai precedenti modelli narrativi e segue un’antica tradizione che dalla biografia greca al romanzo di Apollonio di Tiana, alle Vitae agiografiche greche e latine, rappresenta il santo (=l’uomo di Dio) quale instancabile fautore di miracoli e depositario di una saggezza sovrumana.
Segue uno schema fisso l’agiografia di alcuni di questi santi monaci (secc. IX-X/XI), quali ad es.: Leone Luca di Corleone, Elia di Enna, Elia lo Speleota (nato fuori dell’Isola: a Reggio Calabria ma che ebbe contatti con la Sicilia), Luca di Armento, Vitale di Castronuovo, Cristoforo di Collesano e i suoi figli Macario e Saba, Nicodemo da Kellàrana.
Parlare di loci communes non nega l’interesse che possono assumere; anzi sono di particolare rilievo, in quanto contribuiscono a definire significativamente l’ideale di santità che l’agiografo intende proporre.
Eppure, queste Vitae sono diverse tra loro per lo spessore culturale, la struttura narratologica e la qualità della scrittura, né è riscontrabile in esse un sostrato comune di mentalità e di referenti culturali. Ad es. la Vita di s. Elia di Enna è ancora influenzata dai precedenti modelli narrativi e segue un’antica tradizione che dalla biografia greca al romanzo di Apollonio di Tiana, alle Vitae agiografiche greche e latine, rappresenta il santo (=l’uomo di Dio) quale instancabile fautore di miracoli e depositario di una saggezza sovrumana.
Quanto alla
lingua, alcune di queste Vitae le
possediamo, allo stato attuale delle ricerche, solo in lingua latina: come ad
es. quella di Leone Luca di Corleone (BHL 4842), di Luca di Armento (BHL 4978)
e di Vitale di Castronuovo (BHL 8697); altre, invece, si sono conservate in
lingua greca, come ad es. quelle composte da Oreste patriarca di Gerusalemme
per il gruppo familiare di Cristoforo da Collesano, della moglie Kalì e dei
loro due figli Saba e Macario (BHG 312, BHG 1611), quella di Elia di Enna (BHG
e Novum Auctarium 580), quella di
Elia lo Speleota (BHG 581).
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