Monsignor Cataldo Naro |
In alcuni
suoi scritti lo storico Cataldo Naro, preside della Facoltà teologica di
Palermo e poi arcivescovo di Monreale, ha distinto tre periodi
nell’atteggiamento della Chiesa verso la mafia: il silenzio, la parola, il
grido. Nella prima fase la Chiesa (qui intesa come istituzione) non dedicò la
sua attenzione al fenomeno.
Nella
seconda ne riconobbe ufficialmente l’esistenza e cominciò a condannarla con sempre
maggiore vigore. La terza fase “inizia con il grido di Giovanni Paolo II nella
Valle dei templi, ad Agrigento, nel 1993”, che ribadì l’incompatibilità tra
cristianesimo e mafia usando “per la prima volta … parole e categorie
cristiane: pentimento, conversione, giudizio di Dio, martirio. Quest’ultima
parola confermata in modo impressionante dalla successiva morte violenta di don
Pino Puglisi a Brancaccio.
Organizzazioni
come Cosa Nostra o la Camorra ebbero origine ben prima dell’Unità d’Italia. Come spiegava sempre Cataldo Naro
(sottolineando che una spiegazione non è una giustificazione), i mafiosi,
aspirando al consenso della comunità in cui vivevano, avevano evidentemente
interesse a nutrire e ostentare buoni rapporti con esponenti della Chiesa
cattolica. Anzitutto con il parroco, talvolta anche con religiosi
gerarchicamente superiori. In secondo luogo, il Risorgimento e l’unificazione
vennero vissuti in modo traumatico della Chiesa.
Ciò portò
sia il clero sia molti fedeli a vedere lo Stato unitario come un corpo estraneo (e ancor più
quando si ebbe l’espropriazione delle terre e la pubblicizzazione delle Opere
pie) e talora a solidarizzare con moti e bande di briganti intenzionati a
restaurare il dominio borbonico. In occasione delle reazioni di rigetto contro
l’unificazione verificatesi in Sicilia le autorità dello Stato italiano
accomunarono taluni gruppi cattolici ai facinorosi che poi sarebbero stati
individuati come esponenti della mafia, anche se resta dubbio se e quanto tale
partecipazione effettivamente vi fu.
In genere,
quelle liberale, mazziniana, garibaldina, massonica, poi socialista e comunista erano
tutte tendenze politiche e culturali anticlericali che sfidavano la Chiesa nel
suo radicamento territoriale, mentre la mafia le si presentava con un volto non
minaccioso e anzi amico. Infine, i sacerdoti erano nati in genere negli stessi
luoghi sui quali sarebbero poi andati a esercitare il proprio ministero. Se in
tali comunità la presenza mafiosa e i connessi rapporti di potere erano vissuti
dai più come normali, esponenti del clero socializzati in quella subcultura li
avrebbero spesso considerati normali a propria volta, specie se sussistevano
anche legami di parentela e comunque di conoscenza diretta e familiarità con
gli esponenti dei clan (il che in certe realtà è scontato).
È bene anche
porre mente alla situazione sociale del tempo. Per la gran parte della popolazione, nonché per le
istituzioni, i mafiosi erano dei notabili ben inseriti nel tessuto sociale e la
mafia non era definita come un grave problema di ordine pubblico. Raffaele
Palizzolo, imputato quale mandante dell’omicidio Notarbartolo, venne difeso da
un intellettuale come Giuseppe Pitrè e da Ignazio Florio, notoriamente uno
degli imprenditori più importanti dell’Italia del tempo. Quest’ultimo
testimoniò a suo favore e in quella occasione negò l’esistenza della mafia,
ritenendola una parola di cui si faceva uso per denigrare la
Sicilia. Anche per Gaetano Mosca, uno degli scienziati sociali che più
acutamente si era dedicato a osservare il fenomeno (tant’è che il suo scritto
del 1900 Che cosa è la mafia, recentemente ripubblicato, viene
considerato un classico sull’argomento), Palizzolo era essenzialmente un
politico clientelare, di quelli che stringevano la mano a tutti.
In
definitiva, la mafia in certi territori esisteva e chi vi risiedeva poteva e
talora doveva accorgersene, nella sua vita quotidiana. Tuttavia per paura, o per abitudine, o per
convenienza, o per connivenza, il più delle volte il più delle persone
preferivano tacerne. Il silenzio sulla mafia era quindi generalizzato, salve
poche eccezioni, a un’intera società. La mafia non era ufficialmente – come si
direbbe oggi – sull’agenda della politica e degli organi della pubblica
opinione. Soltanto in rari casi, come appunto l’omicidio Notarbartolo o quello
di Joe Petrosino, se ne dovette giocoforza discutere. Alle gerarchie
ecclesiastiche romane il problema non perveniva. Ai vescovi delle diocesi
meridionali formalmente neppure. Ma ciò valeva tanto per l’istituzione Chiesa
quanto per le istituzioni dello Stato italiano (peraltro allora in
contrapposizione tra loro).
Ho detto il
più delle persone. Non tutte. Vi fu chi non tacque e anzi scrisse, da Turrisi
Colonna a Franchetti e Sonnino, a Colajanni, Sangiorgi, Lestingi, Colacino, al
già citato Mosca. Anche esponenti del mondo cattolico si scontrarono
personalmente con la mafia e scrissero di essa. Tra questi, come ho già
accennato, Luigi Sturzo, che lo faceva sul finire dell’Ottocento e ai primi del
Novecento (dedicandovi anche un’opera drammaturgica). Ma adesso parliamo di
singoli individui (rari e talora contestati come anti-siciliani), non di
istituzioni.
Ancora
Cataldo Naro annotava: “Pino Puglisi non è il primo prete ucciso dalla mafia. Dalla fine
dell’Ottocento ad oggi ne sono stati uccisi altri, circa dieci, nelle diocesi
di Palermo, Monreale e Caltanissetta. Tuttavia nelle precedenti uccisioni non
era mai apparso evidente il motivo dell’esercizio del ministero pastorale in
quanto tale. Erano uccisioni che apparivano consumate per questioni ‘private’,
familiari o personali, non per vendetta di fronte ad una pubblica presa di
posizione contro l’organizzazione e il costume mafioso in nome del Vangelo e
dell’insegnamento morale della Chiesa. Anche in questi due o tre casi che fanno
pensare fondatamente a motivi legati alle funzioni pastorali degli uccisi,
furono fatte circolare ad arte voci che indirizzavano le indagini della polizia
verso motivi ‘personali’, più o meno onorevoli. Il motivo pastorale, se ci fu,
risultò così oscurato. Senza dire, ovviamente, di quei casi in cui, invece, ci
sono elementi per pensare ad una forte forma di collusione mafiosa degli
uccisi”. In Calabria, a Ortì, Don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallara
vennero soppressi nel 1862 per aver denunciato la Picciotteria (il nome che
allora si dava a quella che oggi viene chiamata ‘Ndrangheta).
Anche alcuni
amministratori locali esponenti della Dc – Pasquale Almerico, Vincenzo Lo
Guzzo, Vito
Montaperto, Vincenzo Campo – durante l’immediato secondo dopoguerra, quando era
ancora in corso la fase del “silenzio”, si opposero alla mafia a tal punto da
finire assassinati. Alcuni vescovi furono minacciati (anche di morte) sia da
parte di mafiosi sia anche da parte di sacerdoti a essi vicini, affinché
affidassero parrocchie o altri incarichi a certi soggetti e non ad altri. Il
che significa che, anche in un periodo in cui le prese di posizione ufficiali
mancavano, nel clero vi erano sì alcune personalità gradite alla mafia, ma
anche altre a essa sgradite, che quindi andavano infastidite, intimidite, fatte
sloggiare (senza che ciò dovesse necessariamente condurre alla loro
eliminazione fisica). Così come anche tra i cattolici laici operanti nella
società civile, nella politica e nell’amministrazione vi erano soggetti che la
mafia considerava vicini e affidabili e altri che – interpretando
spontaneamente il verbo cristiano – con essa non volevano avere a che fare.
Altri ancora, pur sentendosi personalmente ben distanti dalla mafia,
giustificavano il coinvolgimento nel campo cattolico di persone ad essa
riferibili in nome della necessità di far fronte comune contro l’incombente
pericolo comunista.
Siciliainformazioni.com
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