Il premier Matteo Renzi |
di EUGENIO SCALFARI
HO
SCRITTO più d'una volta nelle scorse settimane che abolire l'articolo 18 come
il governo si propone di fare ritenendolo della massima importanza per il
nostro prestigio a Bruxelles, non interessa invece né gli altri Stati
dell'Unione né il Parlamento di Strasburgo né la Germania. Che l'articolo 18
esista oppure no è un fattore del tutto irrilevante per quanto riguarda la
politica estera e il prestigio italiano in Europa. Così scrivevo ma mi rendo
conto che sbagliavo. Ed infatti: "Ai sensi dell'articolo 30 della Carta
dei diritti, ogni lavoratore e quindi anche quelli extracomunitari ha diritto
alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato e incompatibile al diritto
dell'Ue e alle legislazioni e prassi nazionali". Pertanto dell'articolo 18
il governo e addirittura il Parlamento italiano non possono decidere alcun
provvedimento perché la legislazione europea fa premio su quelle nazionali di
ciascun Paese, sempre che ovviamente i Parlamenti nazionali abbiano approvato e
ratificato le disposizioni europee, ciò che da tempo è ovunque avvenuto. È
strano che neppure la Cgil e la Fiom, che portano avanti combattendo a mani
nude la loro battaglia, ricordino l'articolo 30 della Carta europea; basterebbe
invocarla per bloccare qualunque provvedimento nazionale in merito. Ed è
altrettanto strano che neppure l'opposizione interna del Pd richiami quelle
disposizioni di Bruxelles. Così si dimostra a sufficienza che il Pd si è
trasformato in un partito personale guidato da un uomo solo. Del resto ciò sta
avvenendo in tutta Europa, dove il partito personale prevale su ogni altra
forma fin qui applicata o almeno ostentata.
Esiste ancora un ostacolo al partito interamente personale ed è rappresentato dalle Istituzioni che esercitano la tutela della vigente Costituzione: il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, l'Ordine giudiziario. Quest'ultimo non è neppure definito un potere e la ragione è evidente: si tratta di un potere diffuso del quale ciascun membro dell'Ordine è titolare. Il potere diffuso non è un potere costituzionale perché manca una gerarchia democratica che lo renda tale. Il Consiglio superiore della magistratura sì, è depositario di un potere attivo di autogoverno e lo esercita infatti avvalendosi di una gerarchia democratica, ma ovviamente non può e non deve entrare nel merito dei singoli processi, sia nella fase inquirente sia in quella giudicante. La gerarchia esiste ma è molto debole. Le conseguenze si vedono e non sono particolarmente confortanti. In particolare non è confortante la contrapposizione costante tra magistratura ordinaria e magistratura amministrativa.
Accade sempre più frequentemente che i Tar intervengano sull'operato della magistratura ordinaria, la quale è strutturata su una triplice struttura organizzativa. Questo dovrebbe costituire un apparato garante del diritto delle parti in causa: ma il fatto che a questa gerarchia si aggiunga anche l'intervento della magistratura amministrativa non accresce anzi indebolisce quelle garanzie, come del resto ha già notato qualche giorno fa il presidente Napolitano. L'esempio più recente e calzante riguarda il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. È probabile che la magistratura ordinaria avesse male applicato la legge Severino, ma esistevano appunto gli altri gradi di giurisdizione per correggere; invece è intervenuto il Tar con una sospensiva, neppure con una sentenza di merito. La sospensiva ha reintegrato il sindaco con tutti i suoi poteri, rendendo in tal modo inevitabile l'intervento della Corte costituzionale. Tutto ciò non accresce le garanzie ma accresce la confusione e la perdita di tempo, uno dei fattori di debolezza non solo della giurisdizione ma anche dell'economia italiana e della sua competitività. Quanto all'ostacolo di chi tutela la Costituzione nei confronti del partito personale, esso ha un solo modo per ottenere un risultato: aumentare il ruolo del potere legislativo nei confronti dell'esecutivo. Purtroppo in questo caso, come già abbiamo più volte osservato, il presidente della Repubblica ha manifestato il suo appoggio alla proposta di diminuire la presenza del Senato nel potere legislativo e alla sua nuova funzione di organo amministrativo, per di più nominato o eletto in secondo grado dagli stessi organi e persone che spetterà al Senato controllare, correggere ed eventualmente sanzionare.
Da questo punto di vista mi torna in mente una recente immagine estremamente efficace di papa Francesco. La Chiesa, ha detto Bergoglio, è un castello fornito di un ponte levatoio. Se il ponte non è abbassato consentendo l'entrata e l'uscita delle persone, ma è costantemente elevato e il castello non ha conoscenza della società esistente, la Chiesa morirà. Un Papa non aveva mai detto una simile perturbante verità che se è vera per un organismo che rappresenta addirittura una religione, vale mille volte di più per un organismo amministrativo che ha fatto parte finora del potere legislativo. Se così non sarà più, la forza del potere legislativo decadrà pesantemente e contribuirà al predominio del potere esecutivo. Non è certamente un bel vedere il fatto di assistere ad una così profonda trasformazione del sistema.
***
C'è ancora un tema che desidero esaminare brevemente e che è diventato di attualità tra le persone riunite per tre giorni alla Leopolda. Una riunione di fatto di molti politici renziani, di data antica o recente. Ad un certo punto di quella riunione Renzi ha detto una battuta piuttosto feroce nei confronti dei cosiddetti intellettuali che vengono spesso applauditi. Ed è giusto farlo, ha aggiunto il leader leopoldiano, ed ha battuto tre o quattro volte le mani. Era evidentemente un motto di spirito e come tale è stato interpretato dai presenti i quali hanno anche essi tributato agli intellettuali un ampio applauso-sberleffo e subito dopo l'hanno trasformato in una lunga orchestra di fischi e lazzi di vario genere. Che avessero ragione? Che gli intellettuali siano dei vecchi o dei giovani bacucchi, delle impettite e spesso inutili presenze e supponenze? Che non siano mai stati loro a fare la storia, a prevedere un imprevedibile futuro e a sostenere a proprio vantaggio un passato che meriterebbe di essere collocato in soffitta o in cantina? Questo, per quel che vale, hanno detto Renzi e i suoi accoliti e su questo sono stato indotto a riflettere.
In effetti, tra le due guerre del secolo scorso e poi con sempre più opere e approfondimento conoscitivi, nacque a Parigi L'École des Annales, di cui maggiori ispiratori furono Bloch e Febvre e alla quale collaborarono Levi-Strauss e Foucault. Questa scuola - ovviamente fatta di intellettuali - sosteneva la tesi che comunque non fossero i singoli, le persone con un nome illustre, gli eroi, i poeti, gli scrittori di tragedie o commedie, i letterati a fare la storia, ma piuttosto i ceti sociali, le numerose etnie, i ricchi, i poveri. Bisognava aver letto Ricardo e Malthus e magari Marx ed Engels per capire chi e come fa la storia. Fossero anche i renziani, che considerano il presente come la sola vera realtà. Attenzione: non Renzi (che è il nome di un singolo) ma i renziani che rappresentano la cornice di un quadro dentro al quale ciascuno può fare un segno, disegnare un paesaggio, ravvivare un colore. È questa la realtà? E coloro che si pretendono e sono intellettuali non si amareggiano d'esser fischiati o tutt'al più ignorati? Ci ho pensato a lungo e poi mi sono chiesto: chi sono gli intellettuali? Quelli che intelligono, cioè capiscono. Capiscono se stessi e gli altri, tengono abbassato il ponte levatoio tra il dentro e il fuori. Fanno la storia. Sì, la storia la fanno loro e sono di parola. Vogliamo dirne i primi nomi? Vogliamo cominciare da Omero? Da Esiodo? Da Solone? E poi avanti, fino a Dante, Petrarca, Boccaccio, Marlowe, Shakespeare, Rabelais, Cervantes, Montaigne; e finendo il nostro elenco che potrebbe durare chissà quanto, con Einstein, Freud, Nietzsche? Ce ne sarebbero pareti e pareti della Leopolda dove stampare alcuni di questi nomi. Forse perfino quello di Renzi. Lui è convinto di essere l'uomo della storia di oggi. Attento però: la storia si può far bene oppure male. Da soli si fa male. Ci vuole una squadra. Una squadra senza un nome non ha senso. Un nome senza squadra meno ancora.
La Repubblica, 02 novembre 2014
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