Giuseppe Russo |
La cronaca (e la storia) del dopoguerra in Italia è disseminata di “misteri”, protocolli riservati, patti segreti, strette di mano occulte. Ed è disseminata di “indicibili intrecci” (copyright di Loris D’Ambrosio) in particolare sul fronte della lotta dello Stato alla mafia.
Noi parliamo ora, e da un paio di anni, della Trattativa
Stato-mafia legata alla stagione delle stragi del 1992. Ma ci sono
storie ed episodi che raccontano già nei decenni precedenti l’ombra della
medesima continuità della pratica di “scambi” indicibili tra apparati e
capimafia. In nome della pace sociale e dello status quo, pezzi degli apparati
dello Statohanno da sempre praticato la politica del baratto con i boss. E
alcuni protagonisti di quelle pericolose relazioni ritornano in scena nei
decenni e forse non sono mai usciti.
Esempio: prendiamo l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo, alto
ufficiale e investigatore di punta dei carabinieri, ucciso nella piazza di Ficuzza (vicino a Corleone) il 20
agosto 1977. Russo era uno tosto: indagava sul “mistero” della morte
di Enrico Mattei e sulla stagione delle stragi mafiose a
Palermo e provincia: anche allora, per dirimere i conflitti interni
all’organizzazione, i mafiosi corleonesi e i palermitani si piazzavano autobombe
(Giuliette Alfa Romeo per l’esattezza) e così risolvevano i loro conflitti.
Russo era stato collaboratore del generaleCarlo Alberto Dalla Chiesa,
negli anni 50 capitano a Corleone. Russo e Dalla Chiesa avevano iniziato a
interrompere lo “scambio” indicibile per il quale, a fronte di notizie o di
qualche arresto per “fare bella figura”, le forze dell’ordine si accontentavano
di avere “pace sociale” sui territori. Niente omicidi, niente indagini: questa la
sintesi del patto. Finché durava, non c’erano delitti, si arrestavano ladri
e piccoli furfantelli, ma senza molestare traffici e indagare sulle relazioni
tra politica, imprese e mafia.
Per decenni, la scena era stata questa: i vescovi che negano l’esistenza
della mafia, i procuratori della Repubblica e i giudici di Corte d’Assise che
alla fine assolvevano i mafiosi per insufficienza di prove (che nessuno
cercava). Gli unici che facevano casino erano i capipopolo che occupavano la
terra e si battevano per i diritti dei contadini e per questo molti di loro
erano gli unici ad essere uccisi (vedi la strage di Portella e
poi i delitti dei sindacalisti Salvatore Carnevale e Placido
Rizzotto). Questa è stata la storia dei 25 anni che in Sicilia seguirono
alla seconda guerra mondiale.
Se un carabiniere si metteva in testa di “rompere” quel tacito patto
di non belligeranza, rischiava. Russo lo fece, non si accontentò solo di
fare qualche arresto: indagava sul caso Mattei, ma si era messo in
testa anche di scoprire gli affari economici dei corleonesi e
voleva capire le nuove relazioni e il nuovo patto tra i corleonesi e la nuova
classe politica e le imprese.
Quello del colonnello Russo fu forse il primo delitto di alta mafia.
E tuttavia, grazie alle lacunose e frettolosissime indagini dei suoi colleghi,
per quel delitto furono imputati e condannati un gruppo di pastori e qualche
balordo ai confini dei sistema mafioso. Le motivazioni del delitto? Risibili,
piccole storie locali.
Vent’anni dopo quel
delitto, nel 1997, gli imputati saranno prosciolti e l’intera cupola di Cosa
nostra(Riina, Provenzano, Bagarella e così via), saranno indagati e
processati. E saranno accertati i depistaggi degli apparati di
intelligence per coprire le ragioni di quel delitto. Perché il colonnello Russo
aveva infranto la “prassi” antica e consolidata della trattativa o dei patti
scellerati tra Stato e mafia.
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