di G. CARLO MARINO
Don Ciotti ha voluto scrivere, per sua generosa iniziativa, la Prefazione al libro, edito dalle Paoline ("L'ALTRA RESISTENZA- Storie di eroi antimafia e lotte sociali in Sicilia") da me scritto insieme a Pietro Scaglione che è appena uscito in libreria. Mi sembra utile lanciarla autonomamente nel web, mentre è in corso una fase di particolare intensità del processo sulla trattativa Stato-mafia e mentre ancora si espande l'eco delle incredibili affermazioni (invero ben più inquietanti che normalmente "comiche") di Grillo sulla mafia. Il libro raccoglie a pieno tondo, senza riserve, una specie di "mea culpa" del mondo cattolico per i suoi lunghi silenzi, nonché per le sue colpose complicità di giudizio e di prassi con la societas mafiosa e con il sistema di potere. Ed è anche una ferma denunzia di una certa, assai larga, ancora affliggente, "retorica dell'antimafia". Ma anche rievoca le lunghe, e ancora tutt'altro che vittoriose, lotte della società civile contro il fenomeno mafioso di cui mette in luce i legami profondi, oggi sempre più evidenti, con il corso della globalizzazione capitalistica. Un libro "laico" per una "pastorale antimafia" nello spirito di papa Francesco. Spero che venga accolto per quel che è e vuole essere: non uno dei soliti (forse ormai troppi!) libri sulla mafia, ma un testo che aiuta a capire perchè "LA MAFIA SI CHIAMA MAFIA"!
Don Ciotti ha voluto scrivere, per sua generosa iniziativa, la Prefazione al libro, edito dalle Paoline ("L'ALTRA RESISTENZA- Storie di eroi antimafia e lotte sociali in Sicilia") da me scritto insieme a Pietro Scaglione che è appena uscito in libreria. Mi sembra utile lanciarla autonomamente nel web, mentre è in corso una fase di particolare intensità del processo sulla trattativa Stato-mafia e mentre ancora si espande l'eco delle incredibili affermazioni (invero ben più inquietanti che normalmente "comiche") di Grillo sulla mafia. Il libro raccoglie a pieno tondo, senza riserve, una specie di "mea culpa" del mondo cattolico per i suoi lunghi silenzi, nonché per le sue colpose complicità di giudizio e di prassi con la societas mafiosa e con il sistema di potere. Ed è anche una ferma denunzia di una certa, assai larga, ancora affliggente, "retorica dell'antimafia". Ma anche rievoca le lunghe, e ancora tutt'altro che vittoriose, lotte della società civile contro il fenomeno mafioso di cui mette in luce i legami profondi, oggi sempre più evidenti, con il corso della globalizzazione capitalistica. Un libro "laico" per una "pastorale antimafia" nello spirito di papa Francesco. Spero che venga accolto per quel che è e vuole essere: non uno dei soliti (forse ormai troppi!) libri sulla mafia, ma un testo che aiuta a capire perchè "LA MAFIA SI CHIAMA MAFIA"!
LA PREFAZIONE DI DON LUIGI CIOTTI
È un libro importante, questo di
Giuseppe Carlo Marino e Pietro Scaglione. Un libro che ci racconta la storia
della lotta alla mafia in Sicilia da due prospettive diverse eppure
complementari. Da un lato, Marino, da storico, ne mette in risalto gli
sviluppi, le dinamiche, le svolte. Dall’altro Scaglione, giornalista e nipote
del valoroso magistrato ucciso da Cosa Nostra nel 1971, mette a fuoco le
storie, i nomi, le vite e le morti di tante persone che si sono opposte alla
violenza criminale mafiosa e alle sue propaggini nel potere e nella politica.
Molte storie le conosciamo, riferite
come sono a persone ed eventi che sono diventati un simbolo della lotta per la
giustizia in questo Paese, ma il pregio del libro è di ricordarne tante altre
note invece soprattutto a studiosi o «addetti ai lavori», storie che è bene
conoscere non solo per un debito morale e di sapere, ma anche per smentire
l’idea che la lotta alla mafia sia un compito alla portata solo di personalità
eccezionali e non invece (come deve essere) espressione delle responsabilità
che riempiono di senso e contenuto il nostro essere cittadini.
Altro grande pregio del libro è l’impostazione
dell’analisi. Un’impostazione che mi trova del tutto consenziente e che cerco
di riassumere per punti, appoggiandomi a quanto è scritto in queste pagine
dalle quali ho molto imparato.
Il primo punto è che la mafia non è mai
stata un fatto solo criminale, e crederlo significa scambiare
l’effetto con la causa, la febbre con la malattia.
Il professor Marino ci ricorda come sin
dalla seconda metà dell’800 (dall’Unità d’Italia) tra attività criminale
mafiosa e poteri dominanti ci sia stata una profonda convergenza di interessi.
E se all’inizio era l’alleanza fra aristocrazia del latifondo e manovalanza
criminale (con l’intermediazione dei gabelloti, affittuari delle terre) con
l’urbanizzazione della mafia negli anni Cinquanta e Sessanta è stato il gioco
di sponda fra le cosche e parti cospicue del potere politico, «gioco» con cui
ancora oggi dobbiamo fare i conti. Lo stesso fascismo, proclamando guerra alla
mafia e mandando in Sicilia l’inflessibile prefetto Mori, aveva promosso
perlopiù un’operazione di facciata, tanto da destituire Mori non appena,
sconfitto il brigantaggio, aveva cominciato a indagare sulle connessioni tra
mafia e «colletti bianchi». La mafia è stata insomma un fatto, prima che
criminale, «politico», una forma di corruzione del potere, e la politica
propriamente detta non ha dimostrato, tranne virtuose eccezioni, una ferrea
volontà di combatterla. Una di queste eccezioni è stata la legge
Rognoni-La Torre, approvata dopo l’omicidio di Pio La Torre nella primavera del
1982, la prima a riconoscere il reato di associazione mafiosa e di concorso
esterno, a prevedere la confisca dei beni e sconti di pena per i mafiosi
disposti a collaborare con la giustizia. Misure che permisero a Giovanni
Falcone – osserva Marino – d’istruire il «Maxiprocesso» a Cosa Nostra, ma che
in seguito sono state annacquate o usate in modo inadeguato a risolvere il nodo
mafia-politica.
Il secondo punto è che per sconfiggere
la mafia non bastano gli arresti e i processi, ma occorrono l’impegno sociale e
un complessivo mutamento della cultura e dei costumi.
È un punto che mi sta molto a cuore,
tanto da ispirare l’impegno di Libera sin dalla sua prima mobilitazione del
1995 per una legge sull’uso sociale dei beni confiscati. «Uso sociale» non
significa solo che il bene sottratto alla comunità va restituito, ma
trasformato in un veicolo di cultura, di dignità, di lavoro, cioè di
democrazia. Al tempo stesso, «cambiamento culturale» non significa solo mera
acquisizione di sapere, ma educazione alla responsabilità. Senza responsabilità
il sapere rischia di essere astratto, separato dalla vita, e la stessa legalità
un dettato formale al quale ci si adegua per conformismo, per convenienza o per
timore.
Il terzo punto è che la lotta contro le
mafie è da sempre lotta per la giustizia sociale.
Il libro offre un quadro esaustivo dei
movimenti e delle persone che in varie epoche hanno messo impegno e speranze a
disposizione delle classi sociali oppresse dalle mafie e dai loro complici
nelle stanze del potere. E se le cose sono molto cambiate dai tempi dei Fasci
siciliani o del martirio dei sindacalisti, o ancora del sacrificio di tanti
rappresentanti dello Stato – uccisi prima che dalle mafie dall’isolamento
prodotto dalla loro dirittura etica – il legame fra lotta alla mafia e impegno
per la giustizia sociale è più che mai evidente. Oggi le mafie sono imprese del
crimine comodamente insediate in un sistema politico-economico che ha prodotto
disuguaglianza, povertà e guerre a livello globale, un sistema di cui le
organizzazioni criminali riproducono i «valori» (soldi, proprietà, potere) e di
cui condividono, estremizzandole, le dinamiche di sfruttamento e di rapina. E a
chi ancora nega o minimizza la diffusione delle mafie al Nord (fenomeno che
risale addirittura agli anni Sessanta) andrebbe ricordata non solo la nota
osservazione di Sciascia sullo «spostamento della linea della palma», ma le
parole di don Luigi Sturzo, riprese anche in queste pagine, quando nel lontano
1900 disse: «La mafia ha i piedi in Sicilia, ma la testa forse a Roma» e poi,
con impressionante profezia, che «diventerà più crudele e disumana; dalla
Sicilia risalirà l’intera Penisola per portarsi anche al di là delle Alpi».
Ogni discorso sulle mafie che si
concentra sull’aspetto criminale senza cogliere il nesso fra mafie e deficit di
lavoro, di cultura, di diritti, rischia così di essere non solo monco ma
fuorviante, incapace di fare luce sulla natura profonda del fenomeno mafioso e
sulle necessarie misure per estirparlo (opportunamente Pietro Scaglione ricorda
che, se di mafia si inizia a parlare nell’800, la dinamica mafiosa esisteva nel
nostro Paese già da prima come abuso di potere, come forza imposta in luogo del
diritto, come oppressione e sfruttamento delle classi deboli). Questo libro
salda l’aspetto criminale con quello sociale e politico, ed è dunque un libro
che fa chiarezza, che aiuta a capire.
Un’ultima annotazione. L’opera è
dedicata «a papa Francesco, per una pastorale antimafia».
Papa Francesco si è pronunciato sulle
mafie e sulla corruzione con la schiettezza e la profondità con cui affronta i
grandi problemi del nostro tempo. Personalmente gli sono molto grato per come
ha accolto, lo scorso marzo a Roma, centinaia di famigliari delle vittime che
legano il loro impegno a Libera. Mai la Chiesa, che pure nel recente passato,
con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, aveva parlato con chiarezza, aveva
espresso un’attenzione tanto diretta e toccante. Il Papa ha ascoltato, ha meditato,
ha pregato. E solo dopo ha parlato. Prima ai famigliari, con dolcezza, e poi
mafiosi, a cui ha chiesto «in ginocchio» di convertirsi. Per poi ricordare, nel
giugno scorso a Cassano allo Jonio – dove era stato ucciso pochi mesi prima
Lazzaro Longobardi, un prete amato per il suo impegno per i poveri – che la
mafia è «adorazione del male» e chi ne percorre la strada è scomunicato, fuori
dalla comunione con Dio.
Da sacerdote mi auguro che il suo
esempio sgombri finalmente il campo dalle prudenze, silenzi e ambiguità che in
passato hanno caratterizzato l’atteggiamento di una parte di Chiesa nei
riguardi delle mafie, e che questo libro puntualmente rievoca insieme a tanti
contrapposti esempi di coraggio, di generosità e coerenza evangelica (i don
Puglisi e i don Diana, ma anche i preti uccisi all’inizio del 900 per il loro
impegno sociale in terre di mafia – don Giorgio Gennaro, don Costantino Stella,
don Stefano Caronia).
Fa impressione leggere che nel lontano
1877 in La Sicilia cattolica – organo ufficiale della Curia
vescovile di Palermo – si denunciava la collusione fra la «buona società» e il
crimine organizzato: «Che vale essere avvocato, sindaco, proprietario e perfino
deputato se delle loro proprietà e titoli se ne servono a proteggere il
malandrinaggio? (…) per giungere ad alcunché di positivo bisogna non transigere
con la mafia!». E ancora: «I criminali tutti avevano le loro protezioni, le
loro spiccate influenze, i loro inviolabili amici. E, questi, dei banditi si
avvalevano, e molto: a comporre pacificamente questioni insorte, ad ottenere
ciò che nelle vie legali non avrebbero potuto e perfino per essere eletti
deputati».
Questo parlare chiaro, capace di saldare
carità e giustizia e stare dalla parte dei poveri denunciando al contempo le
cause politiche di povertà e violenza, non è mai stato del tutto soffocato,
sempre ha trovato voci e varchi per farsi sentire.
Che oggi trovi espressione nelle parole
di un Papa è segno di speranza non solo per la Chiesa ma per tutti, credenti e
laici. Perché una società libera dalle mafie – e questo libro non fa che
ricordarcelo – è una società della responsabilità e della ricerca di verità.
Una società libera dalle menzogne del potere.
Don Luigi Ciotti
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