di Umberto Santino
Che nel movimento
antimafia ci siano delle divisioni non è una novità, ma non penso che servano a
molto reazioni emotive, come le lamentele di chi non perde occasione per
proclamare che “contro la mafia bisogna essere tutti uniti” o l’invocazione
della purezza da salvaguardare da chi approfitta degli anniversari delle
vittime più illustri per esibire un’antimafia di facciata. Bisognerebbe trovare
la capacità di riflettere su quel che è accaduto negli ultimi anni e continua
ad accadere, ma francamente non so se questa capacità, o almeno questa volontà,
ci sia. Nell’antimafia si
ritrovano soggetti diversi:associazioni, fondazioni, centri studio, comitati
più o meno formalizzati, alcuni lautamente finanziati con fondi pubblici (e qui
si pone il problema della discrezionalità con cui vengono assegnati, ma su
questo tema non pare che si voglia fare un ragionamento serio e conseguente),
si ritrovano familiari di vittime, alcune notissime, altre ignorate o
sconosciute, e già questa composizione dovrebbe essere oggetto di riflessione.
Sono storie, culture, sensibilità, esperienze diverse, e non è facile farle
convivere se non si condivide una regola fondamentale, che pare ovvia ma in
realtà non lo è: fare insieme le cose su cui si è d’accordo, aprire un confronto
sulle altre su cui un accordo non c’è. Ma questa volontà di convivenza c’è o prevale
una prassi diversa, per cui chi ha più visibilità, più risorse, più potere,
tende a cancellare gli altri o a relegarli a tifoserie e a comparse di uno
spettacolo dominato dai protagonisti? Chi scrive ha vissuto esperienze
unitarie, dapprima con il Coordinamento antimafia, nato da una proposta del
Centro Impastato nel 1984, dopo la guerra di mafia e i delitti Mattarella, La
Torre, Dalla Chiesa e Chinnici; successivamente con Palermo anno uno nei primi
anni ’90, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, e in Libera, nata nel
1995 con il proposito di costruire un movimento organizzato a livello
nazionale. Esperienze significative, ma non è un caso che le prime due siano
naufragate e che l’ultima abbia avuto problemi che non sono stati affrontati e
risolti, ma espunti con provvedimenti “amministrativi” come le esclusioni o i
dimissionamenti forzati (è quello che è accaduto con l’allontanamento di
dirigenti nazionali, senza nessuna discussione, e la cancellazione dell’intero
gruppo palermitano).
Ci sono poi diversità di analisi
e di pratiche, di idee di mafia e antimafia, più o meno esplicitate. E le
diversità sono diventate contrapposizioni con le vicende processuali successive
alle stragi di Capaci e di via D’Amelio e in particolare con il processo in
corso sulla trattativa Stato-mafia, che chiama in causa rappresentanti delle istituzioni.
Le istituzioni vanno rispettate in ogni caso, chiunque le rappresenti, o il
modo migliore per rispettarle è denunciare complicità, amnesie, silenzi a tutti
livelli, anche a quelli più alti? Come si vede sono domande che vanno al cuore
della storia del nostro Paese, in cui la violenza mafiosa e stragista si è
coniugata con le dinamiche del potere. Il problema è come si gestisce un
contrasto che non è certo una banale diversità di vedute. Un conto è sostenere
un confronto, con le asprezze che non possono non esserci, dato che non è il
freddo misurarsi tra “scuole di pensiero”, ma hanno un peso decisivo vissuti,
tragedie personali e familiari, ferite non rimarginate; un altro è farne una
guerra di religione, in cui si impartiscono assoluzioni o scomuniche. In questo
clima possono convivere le schermaglie tra Salvatore Borsellino e la signora
Falcone e l’abbraccio a Massimo Ciancimino, con le agende rosse inalberate come
un vangelo civile o il libretto di Mao (anche la fede politica può essere una
religione).
In anni non lontani per
Falcone e per Borsellino si organizzavano manifestazioni unitarie e si svolgevano
dibattiti con voci diverse. Davanti all’albero Falcone Antonella Azoti ha
ritrovato la forza per ricordare il padre ucciso nel 1946 e il mio “Ricordati
di ricordare”, che comincia con Emanuele Notarbartolo e i Fasci siciliani, è
stato scritto per il 19 luglio del 1994. Negli ultimi anni le manifestazioni
sono state monopolizzate da alcune associazioni e l’iniziativa di riflessione
più frequentata, con gli interventi dei magistrati impegnati in inchieste di
mafia, e con il concorso di comitati e cittadini antimafia, è stata organizzata
da una rivista diretta da un personaggio che dice di avere le stimmate e di
aver ricevuto dalla Madonna la mission
di lottare la mafia, anticristo del nostro tempo. Bisognerebbe evitare queste
commistioni, l’ho detto e scritto più volte, ma è come gettare pietre in uno
stagno.
Il 19 luglio scorso i
fratelli di Paolo Borsellino hanno chiesto che delle vicende legate alle stragi
si occupi la Commissione
parlamentare antimafia. La presidente della Commissione ha dichiarato che c’è
il rischio di interferire con i procedimenti in corso. Un precedente smentisce
questa preoccupazione. Per indagare sul depistaggio delle indagini sul delitto
Impastato, nel 1998, con due processi in corso contro i mandanti
dell’assassinio, si è costituito presso la Commissione antimafia
un comitato che ha prodotto una relazione sulle responsabilità di uomini della
magistratura e delle forze dell’ordine. Finora quella relazione, pubblicata nel
volume Peppino Impastato: anatomia di un
depistaggio, è un caso unico. Se si vuole, si può riprendere quel filo e
impegnarsi per cercare di accertare le responsabilità a tutti i livelli, a
prescindere dai risultati che potranno conseguirsi sul piano giudiziario.
Pubblicato su Repubblica
Palermo del 22 luglio 2014, con il titolo: Le
guerre di religione non giovano all’antimafia.
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