Accade a Gaza... |
di ALBERTO STABILE
BEIRUT –
Comincerei a chiamare le cose con il loro nome. Quella che per il governo e i
media israeliani è un’ “operazione”, con tutto quello che di riduttivo e di
definito nel tempo, nello spazio e negli obbiettivi da perseguire, ha questa
definizione, è in realtà una guerra in cui un esercito incomparabilmente più
forte, il quinto esercito del mondo si dice, combatte con i mezzi più avanzati
della tecnologia militare contro una milizia di qualche decina di miglia di
uomini, la cui arma più temibile consiste in un arsenale di razzi (molti) e di
missili (pochi) artigianalmente costruiti, i primi e altrettanto
artigianalmente assemblati, i secondi, nelle officine clandestine di Gaza.
Non voglio con questo sottovalutare la pericolosità dell’unica arma per così
dire strategica di cui dispone Hamas, né la capacità della stessa di diffonder
paura e di danneggiare l’ordinato scorrere della vita delle città colpite. Dico
semplicemente che non si possono mettere sullo stesso piano le angosce che
scatenano nel pubblico israeliano le sirene che annunciano l’arrivo di un razzo
“Kassam”, quasi certamente destinato a mancare il bersaglio, o ad essere
distrutto in volo dal sistema antimissile Iron Dome, con le “istruzioni”, per
usare la parola del portavoce di Tshal, dettate ai civili di Gaza, attraverso telefonate,
sms e volantini, riguardanti l’imminente arrivo di una bomba da mezza, o una
tonnellata, o di un missile su un caseggiato, una moschea, e persino un
ospedale in cui si sospetta la presenza di un “obbiettivo”. Istruzioni che
consistono nell’allontanarsi dal luogo preso di mira, pur sapendo che la gente
di Gaza non ha shelters dove rifugiarsi e pur sapendo che con il tempo concesso
loro, spesso e volentieri i civili resterebbero, impotenti e indifesi, entro
l’onda d’urto di questi super ordigni.
In altri termini, quello che c’è di fatalmente, tragicamente ripetitivo in questa guerra di attrito tra Israele e Hamas che va avanti almeno dal giugno del 2006, quando venne rapito il soldato Shalit e immediata, ancorché inutile, fu la ritorsione israeliana, è l’asimmetria delle forze in campo. E in questa asimmetria si nasconde l’elemento che, così come è successo altre volte in passato, costringerà anche questa volta Israele ad arrestare la sua potente macchina bellica: quello che nel linguaggio della diplomazia viene chiamato “uso eccessivo della forza”.
Finora la gran parte dei media occidentali, in consonanza con l’atteggiamento pilatesco dei rispettivi governi, hanno adottato ogni tipo di argomento per non denunciare apertamente, se non per rendere accettabile, l’ennesimo massacro di civili a Gaza: dal vecchio ritornello, caro al premier Netanyahu, secondo cui i “terroristi usano la popolazione della Striscia come scudo”, allo spettro, più paventato che dimostrato, di un’alleanza nefasta tra i jihadisti del Califfo al Bagdadi, nuovo spauracchio dell’Occidente in azione tra Siria e Iraq, e i miliziani di Hamas. Ma non credo che questo periodo di grazia concesso all’Operazione “Protective Edge” (Margine di protezione) durerà a lungo.
Quando le immagini dei bambini innocenti dilaniati dalle “bombe intelligenti” pietosamente annunciate dall’Idf, delle donne anziane disperatamente in fuga dalle macerie delle loro case, dei cadaveri di giovani in jeans e pantofole che nulla hanno dei segni distintivi di un miliziano, diventeranno insopportabili per l’Occidente, allora ci si chiederà se, per quanto fondate possano essere le sue paure, così come i pretesti per colpire duramente un nemico irriducibile, Israele non stia semplicemente cedendo alla falsa quanto diffusa assunzione di poter risolver il conflitto che da 65 anni lo vede contrapporsi ai palestinesi, semplicemente usando la forza.
Quello che il giornalista Gideon Levy ha stigmatizzato come un pensiero ricorrente di una parte dell’estrema destra, purtroppo presente anche alla Knesset e alleata con Netanyahu, che si riassume nell’agghiacciante intenzione di annientare l’avversario (“to kill arabs”, scrive Levy) i suoi ascendenti e i suoi successori. Come ha suggerito, sulla sua farneticante pagina Fb la deputata del partito della Casa Ebraica, Ayelet Shaked: “Dietro ogni terrorista – ha scritto – vi sono decine di uomini e donne senza il cui aiuto non sarebbe potuto diventare un terrorista. Sono tutti nemici combattenti e il loro sangue dovrà ricadere sulle loro teste. Ora, questo riguarda anche le madri dei martiri che hanno mandato i loro figli all’Inferno. Anche loro dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero andare (sottinteso, all’inferno, n.d.r) e dovrebbero andare fisicamente, anche le case dove hanno allevato i loro serpenti…”
Anche nella guerra del 2008-2009 il premier israeliano pro-tempore, Ehud Olmert, ha ceduto all’argomento della forza. Hamas doveva essere cancellata dalla faccia della terra, i sui missili e razzi ridotti in polvere. Eppure, dopo tre settimane di bombardamenti in cui vennero usati anche ordigni al fosforo, dopo 1400 morti palestinesi, la gran parte civili, (13, fra cui 3 civili, le vittime israeliane ) migliaia di case distrutte, Hamas, certamente grazie ad importanti aiuti dall’esterno, forse dall’Iran, o dal Golfo, o dalla nebulosa del jihadismo globale, ha saputo ricostruire il proprio armamento. Non solo, dopo l’Operazione del 2008-2009, il trionfalismo militarista incarnato da Olmert, è stato duramente ridimensionato dal rapporto delle Nazioni Unite, affidato al magistrato sudafricano di origine ebraica, Richard Goldstone, in cui, pur non risparmiando Hamas, si accusa Tsahal di aver commesso crimini di guerra. Sul piano politico, il Movimento Islamico è riuscito a mimetizzare le perdite subite e a mantenere il controllo di Gaza.
L’esperienza del passato dovrebbe, dunque, spingere Israele e i suoi alleati occidentali a non sopravvalutare l’uso della forza contro i palestinesi di Gaza perché questo è un argomento che può ben ritorcersi contro lo Stato ebraico. Una guerra a Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo, ma anche uno dei luoghi del pianeta con la più alta densità umana, implicherà sempre e comunque un intollerabile fardello di vittime civili. Ma su questo punto Israele e l’Occidente mostrano di avere la memoria corta.
(Dal Blog di Alberto Stabile)
In altri termini, quello che c’è di fatalmente, tragicamente ripetitivo in questa guerra di attrito tra Israele e Hamas che va avanti almeno dal giugno del 2006, quando venne rapito il soldato Shalit e immediata, ancorché inutile, fu la ritorsione israeliana, è l’asimmetria delle forze in campo. E in questa asimmetria si nasconde l’elemento che, così come è successo altre volte in passato, costringerà anche questa volta Israele ad arrestare la sua potente macchina bellica: quello che nel linguaggio della diplomazia viene chiamato “uso eccessivo della forza”.
Finora la gran parte dei media occidentali, in consonanza con l’atteggiamento pilatesco dei rispettivi governi, hanno adottato ogni tipo di argomento per non denunciare apertamente, se non per rendere accettabile, l’ennesimo massacro di civili a Gaza: dal vecchio ritornello, caro al premier Netanyahu, secondo cui i “terroristi usano la popolazione della Striscia come scudo”, allo spettro, più paventato che dimostrato, di un’alleanza nefasta tra i jihadisti del Califfo al Bagdadi, nuovo spauracchio dell’Occidente in azione tra Siria e Iraq, e i miliziani di Hamas. Ma non credo che questo periodo di grazia concesso all’Operazione “Protective Edge” (Margine di protezione) durerà a lungo.
Quando le immagini dei bambini innocenti dilaniati dalle “bombe intelligenti” pietosamente annunciate dall’Idf, delle donne anziane disperatamente in fuga dalle macerie delle loro case, dei cadaveri di giovani in jeans e pantofole che nulla hanno dei segni distintivi di un miliziano, diventeranno insopportabili per l’Occidente, allora ci si chiederà se, per quanto fondate possano essere le sue paure, così come i pretesti per colpire duramente un nemico irriducibile, Israele non stia semplicemente cedendo alla falsa quanto diffusa assunzione di poter risolver il conflitto che da 65 anni lo vede contrapporsi ai palestinesi, semplicemente usando la forza.
Quello che il giornalista Gideon Levy ha stigmatizzato come un pensiero ricorrente di una parte dell’estrema destra, purtroppo presente anche alla Knesset e alleata con Netanyahu, che si riassume nell’agghiacciante intenzione di annientare l’avversario (“to kill arabs”, scrive Levy) i suoi ascendenti e i suoi successori. Come ha suggerito, sulla sua farneticante pagina Fb la deputata del partito della Casa Ebraica, Ayelet Shaked: “Dietro ogni terrorista – ha scritto – vi sono decine di uomini e donne senza il cui aiuto non sarebbe potuto diventare un terrorista. Sono tutti nemici combattenti e il loro sangue dovrà ricadere sulle loro teste. Ora, questo riguarda anche le madri dei martiri che hanno mandato i loro figli all’Inferno. Anche loro dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero andare (sottinteso, all’inferno, n.d.r) e dovrebbero andare fisicamente, anche le case dove hanno allevato i loro serpenti…”
Anche nella guerra del 2008-2009 il premier israeliano pro-tempore, Ehud Olmert, ha ceduto all’argomento della forza. Hamas doveva essere cancellata dalla faccia della terra, i sui missili e razzi ridotti in polvere. Eppure, dopo tre settimane di bombardamenti in cui vennero usati anche ordigni al fosforo, dopo 1400 morti palestinesi, la gran parte civili, (13, fra cui 3 civili, le vittime israeliane ) migliaia di case distrutte, Hamas, certamente grazie ad importanti aiuti dall’esterno, forse dall’Iran, o dal Golfo, o dalla nebulosa del jihadismo globale, ha saputo ricostruire il proprio armamento. Non solo, dopo l’Operazione del 2008-2009, il trionfalismo militarista incarnato da Olmert, è stato duramente ridimensionato dal rapporto delle Nazioni Unite, affidato al magistrato sudafricano di origine ebraica, Richard Goldstone, in cui, pur non risparmiando Hamas, si accusa Tsahal di aver commesso crimini di guerra. Sul piano politico, il Movimento Islamico è riuscito a mimetizzare le perdite subite e a mantenere il controllo di Gaza.
L’esperienza del passato dovrebbe, dunque, spingere Israele e i suoi alleati occidentali a non sopravvalutare l’uso della forza contro i palestinesi di Gaza perché questo è un argomento che può ben ritorcersi contro lo Stato ebraico. Una guerra a Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo, ma anche uno dei luoghi del pianeta con la più alta densità umana, implicherà sempre e comunque un intollerabile fardello di vittime civili. Ma su questo punto Israele e l’Occidente mostrano di avere la memoria corta.
(Dal Blog di Alberto Stabile)
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