Una tipica stradina del centro storico di Prizzi |
di Giorgio Petta
Carmelo Amato, il decano dei sacerdoti a Prizzi, il paese
dell'"abballu di li diavuli"
Lucido, pronto alla risposta e alla
battuta, energico. Il 29 agosto prossimo compirà 104 anni. Ma neppure la
broncopolmonite che l'ha aggredito l'inverno appena passato è riuscita ad
abbatterlo. Gli occhi, dietro le lenti spesse da miope, brillano per intelligenza
e attenzione. Monsignor Carmelo Amato, uno dei sacerdoti più anziani d'Italia,
è una roccia, anche se da qualche tempo è costretto - per colpa della malattia
già sconfitta - a stare seduto su una poltroncina, con le spalle avvolte da uno
scialle lavorato a mano di lana verde e un plaid sulla gambe. Una convalescenza
ormai sul finire. Due giorni fa si è alzato e ha concelebrato la messa nella
chiesa di San Francesco d'Assisi. Attorno a lui, pronta ad ogni sua richiesta, vigila e gli sta d'attorno - come
un'ape operosa - Fina Pecoraro, una vicina che ormai vive con il marito e il
figlio, Salvatore di appena cinque mesi, nella casa di Monsignore Amato. «Mi
segue - spiega - da 11 anni. Dal 17 luglio dello scorso anno si è trasferita
con la sua famiglia a casa mia. Mi assiste come una figlia. Per me, lei, il
marito e il bambino sono come parenti stretti e ho disposto che la casa e quel
poco che mi resta di soldi, alla mia morte siano destinati a loro».Non è facile entrare nella stanza a pianterreno del civico 8 della via Mercadante, in pieno centro storico di Prizzi, paese di origine sicana in vetta ad una delle montagne a cavallo delle province di Palermo ed Agrigento, famosa per la tradizione pasquale risalente al Medioevo di "l'abballu di li Diavuli", il ballo dei Diavoli. Le strade sono come un budello che si arrotola, a cerchi concentrici sempre più stretti, verso la cima, fino alla cosiddetta "vedetta" - a 1.018 metri sul livello del mare - dove si trovano i laboratori della stazione meteorologica gestita dall'Aeronautica militare e riconosciuta dall'Organizzazione meteorologica mondiale.
Per chi non conosce il reticolo urbanistico, fatto di vie e scalinate in pietra che tagliano il paese per ogni dove, muoversi è una grande difficoltà. Tanto più se si vuole raggiungere, con informazioni che si sommano l'una con l'altra, come a spizzichi e bocconi, chieste ai rari prizzesi che si incontrano per strada, la casa di monsignore Amato. Una costruzione come tutte le altre che la circondano, che si raggiunge salendo lungo la strada acciotolata che si inerpica serpeggiante. Un pianterreno e un primo piano con un balcone. Monsignor Amato vive nella stanza a pianterreno, una porta-finestra a doppia anta in alluminio anodizzato all'ingresso, aperta a chiunque, che si apre con una maniglia, meta delle visite continue di vicini ed amici.
Di "don" Carmelo a Prizzi si parla dal 23 aprile del 1936 quando fu nominato, appena ordinato sacerdote dal vescovo di Monreale, parroco della chiesa di San Giovanni Battista. «Era - ricorda - il giorno della festa del patrono, San Giorgio. La gente dai balconi lanciava fiori verso il corteo che si avviava verso la chiesa. Sui balconi avevano esposto anche le coperte in onore del nuovo parroco. Una giornata indimenticabile. Sono stato parroco della chiesa di San Giovanni Battista fino a quando ho compiuto 70 anni. Poi sono stato nominato monsignore e rettore della chiesa di Maria Santissima del Carmelo, carica che ricopro tuttora».
Da un paio di giorni di monsignore si parla ancora più di frequente. Da quando, cioè, ha scoperto e denunciato ai carabinieri un "magliaro" napoletano che voleva truffarlo proponendogli l'acquisto di abiti griffati ma che non valevano nulla. Duemila euro gli aveva chiesto. Monsignore non si è lasciato abbindolare e ha telefonato ai carabinieri. Il "magliaro" è fuggito ma poco dopo è stato fermato e denunciato dai militari. Una mezza disavventura, finita bene. Ma che ha lasciato una traccia indelebile. Al cronista che chiede di entrare, monsignore non nasconde la propria diffidenza. E neppure Fina Pecoraro si mostra ben disposta, nonostante la telefonata che annunciava la visita. «Chi siete? », chiede. Affermare di essere un giornalista non basta. «E sì - fa monsignore - non mi fido più degli estranei. Quello dell'altra volta si è presentato sorridente. Diceva che mi conosceva, che era figlio del preside tal dei tali, che di me gli avevano parlato dei sacerdoti di Corleone. Non smetteva mai di parlare. Poi mi ha detto dei vestiti. Però di questa storia non voglio parlare».
C'è voluto del bello e del buono per rompere ghiaccio e diffidenza. Sciorinando conoscenze e amicizie del luogo, nominando compagni di scuola e di classe di quando si frequentava ragazzini, come interni, l'istituto Don Bosco di Palermo. Nomi e cognomi. Con rapporti familiari, parentele ripescate nella memoria lungo il filo delle conoscenze nei paesi vicini, da Palazzo Adriano a Lercara Friddi, a Corleone, a Vicari. E tutto ciò mentre monsignore osservava con occhio attento l'interlocutore, pronto a rilevare e a contestare ogni piccolo errore nei cognomi, magari una consonante al posto di un'altra. «Allora - diceva subito - non siete quello che dite di essere. C'è qualcosa che non va».
Ci sono voluti i nomi scritti su un foglio di quaderno, i documenti personali e professionali mostrati ed esaminati con attenzione, la richiesta di sapere provenienza e paese d'origine. il dopo-"magliaro" è davvero problematico. «Petta, Petta di Piana degli Albanesi? ». «Sì, monsignore». «Bene, bene. Quando ero studente al seminario di Monreale, avevo un compagno di Piana degli Albanesi. Si chiamava Giorgio Petta. Frequentava il ginnasio gestito dai parroci di rito greco-ortodosso. Allora Piana dei Greci, così si chiamava prima, dipendeva dall'arcivescovado di Monreale». «Quel suo compagno di scuola, monsignore, era mio padre. Era nato nel 1911. Se fosse vivo, oggi avrebbe 103 anni. Uno in meno dei 104 che lei festeggerà ad agosto. Le porterò la fotografia degli studenti e dei professori della classe frequentata da mio padre. Glielo prometto».
Rotto, con questo ricordo, finalmente il ghiaccio e - come dire - ormai entrati in confidenza, Monsignor Amato non ha segreti. «Sono stato ordinato sacerdote - racconta - il 19 aprile del 1936 dal vescovo Filippi di Monreale. Ho trascorso tutta la vita come parroco della chiesa di San Giovani Battista e come insegnante di religione. Tutti i ragazzi sono stati miei allievi. Per dieci anni ho insegnato gratuitamente nella scuoLa Sicilia, 18 maggio2014la elementare. Per arrotondare qualche lira davo lezioni private. Insegnavo italiano, latino, storia. Tra i mie allievi c'è stato anche padre Ennio Pintacuda, prizzese come me».
Si commuove, monsignore, al ricordo del padre gesuita, sociologo e politico, protagonista con Leoluca Orlando della "primavera palermitana" dei primi anni ‘80, dei movimenti "Città per l'uomo" e "La Rete", animatore dell'Istituto di formazione politica "Pedro Arrupe" con il confratello Bartolomeo Sorge e del Centro studi sociali "Cesare Terranova", presidente del Cerisdi. «E' stato - dice con la voce incrinata - il mio migliore allievo. Gli ho dato lezioni private nel 1944 e nel 1945 e quando si presentò, da privatista, agli esami a Corleone, i professori rimasero senza parole per la sua bravura. "Chi è stato il tuo professore? " gli chiesero. "Padre Carmelo Amato di Prizzi, il mio maestro" rispose. E come "il mio migliore maestro" mi ha presentato a tutti gli ospiti nel 2005, pochi mesi prima che morisse, quando mi invitò al Cerisdi dove trascorsi una giornata indimenticabile. Fina - aggiunge rivolta alla ragazza - prendi l'album con le foto di quella giornata che mi regalò padre Pintacuda e mostralo al giornalista».
Sacerdote per sempre si definisce monsignore. «Ho la sacra dote - spiega - che Dio mi ha dato attraverso la consacrazione di sacerdote. Ho cercato di trasmettere questa sacra dote attraverso l'insegnamento della religione nelle scuole. Dal 1946, quando a Prizzi fu istituita la scuola media che fino ad allora non c'era mai stata, fui scelto come insegnante di religione. Ogni anno ho rinnovato, tramite il vescovo, il mio incarico. Quando a 70 anni ho dovuto lasciare la scuola, mi sono sentito perso, non sapevo che fare, vagavo per le strade. Ma non ho mai perduto il contatto con i ragazzi. Tutti si ricordano di me ed io di ciascuno di essi. Tornai ad insegnare religione per altri cinque anni alle elementari».
Una vita sana e morigerata, «insieme - sottolinea - con la volontà di Dio», ha portato monsignore a superare il secolo di vita. Ma anche un buon patrimonio genetico. «Mia sorella - dice, compiaciuto - è morta a 99 anni, mia madre a 93. Mio padre, invece, a 72 anni, nell'ottobre del ‘48, ma solo perché prese uno spavento che gli spezzò il cuore».
La Sicilia, 18 maggio 2014
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