Mauro Rostagno |
La sentenza a Trapani dopo 77 udienze. Il giornalista fu ucciso il 26 settembre 1988 da Vito Mazzara per ordine di Vincenzo Virga. L’ombra di Messina Denaro
di Rino Giacalone – Vito Mazzara ha ucciso per ordine di Vincenzo Virga il giornalista Mauro Rostagno. Era il 26 settembre 1988. La sentenza di condanna all’ergastolo è arrivata questa sera a tardissima ora dopo oltre 48 ore di camera di consiglio. La mafia da quel 1988 è riuscita ad evitare l’assalto di magistrati e investigatori, ha potuto farlo fino al 2008 quando le indagini sono ripartite grazie ad un confronto balistico che poteva essere fatto per tempo ma che nessuno aveva pensato di fare.
Quando nel 2008 le indagini furono riprese in mano dalla Squadra Mobile di Trapani, ad accorgersi di quel confronto balistico mai fatto fu un ispettore di Polizia vecchio stampo, investigatore della Squadra Mobile, Leonardo Ferlito che diede l’assist al suo capo, Giuseppe Linares. La comparazione balistica portò sotto processo Vito Mazzara. Bossoli sovracaricati, striature sulle cartucce, risultarono identiche ai reperti di altri delitti per i quali Mazzara era stato condannato all’ergastolo.
Contro Vincenzo Virga l’accusa di essere stato mandante. I pentiti hanno raccontato che fu mandante perché doveva sottostare a sua volta a un altro ordine di morte che contro Rostagno era arrivato da don Ciccio Messina Denaro. E sulla scena del delitto Rostagno, dove a sparare non fu soltanto Mazzara, si staglia la figura di Matteo Messina Denaro, l’attuale latitante, lui e Mazara sarebbero stati compari inseparabili sulle scene di morte.
Condanna all’ergastolo sancita dal Dna. La traccia genetica dell’imputato Vito Mazzara è stata trovata sui resti di fucile abbandonato per terra la sera del delitto. Un lavoro svolto dai periti Carra, De Simone e Presciuttini che hanno resistito all’assalto dei consulenti degli imputati mafiosi, gli ex comandanti del Ris di Parma, Garofalo e Capra.
Pista complessa quella della mafia alla quale, indagini a parte ripartite nel 2008 dopo una certa stagnazione (solo nel 1997 la Procura di Trapani trasmise il fascicolo alla Dda di Palermo), sono stati dedicati tre anni di processo, 77 udienze compresa quella della sentenza, ha impegnato oltre 300 testi, tra perizie balistiche e sul Dna e infine le super perizie, contando solo in ultimo le tantissime ore trascorse dal ritiro dei giudici in camera di consiglio sino alla lettura del dispositivo da parte del presidente Angelo Pellino.
Viene da dire poi che sta in tutta questa complessità la prova che si tratti di un delitto della mafia, gli scenari passati al vaglio di giudici e parti sono pressocchè identici a quelli propri di qualsiasi altro delitto o strage di mafia che l’epoca moderna ha purtroppo conosciuto. Notoriamente la mafia sa non concedere vantaggi a chi indaga e sa anche come farlo. E durante il processo Rostagno questo è venuto bene fuori, tanto che la Corte ha disposto una serie di trasmissioni di atti alla Procura nei confronti di diversi testi, contro i quali è stato ipotizzato il reato di falsa testimonianza: tra questi il maresciallo dei carabinieri Beniamino Cannas, ma anche per la moglie del generale dei servizi segreti Angelo Chizzoni, per i tre murtatori che si presentarono a fornire un racconto che alla luce della sentenza potrebbe essere servito da alibi al commando, per Caterina Ingrasciotta, moglie dell’editore di Rtc Bulgarella, per il giornalista Salvatore Vassallo, per il finanziere Angelo Voza e per il massone Natale Torregrossa.
Tutto questo anche a ulteriore conferma di una condotta investigativa, per lo più appartenuta ai carabinieri, che per anni ha messo da parte l’ipotesi del delitto di mafia, preferendo altre piste, anche quelle che ad uccidere Rostagno potevano essere stati balordi appartenenti alla stessa Saman, per ragioni le più diverse, vendette per “corna” o per uno spaccio di droga scoperto, o ancora per ipotesi più alte, la malagestione della comunità fino ad arrivare ad uno scoop giornalistico che Rostagno si preparava a fare sull’esistenza di un traffico di armi con coperture super segrete da servizi segreti.
Ci sono voluti 26 anni e tre anni di processo per sancire quello che già la sera stessa del delitto in tanti affermavano, e cioè che la mafia per i servizi giornalistici di Rostagno aveva deciso la sua eliminazione. Una sorte comune ad altri giornalisti, da Siani a Impastato, da Spampinato a Francese.
Rostagno era una camurria per la mafia hanno detto i pentiti, e don Ciccio Messina Denaro, patriarca della mafia belicina, decise di farlo eliminare. Rostagno puntava contro chi la nuova Cosa nostra si era affidata, il mazarese Mariano Agate, scoprendo i suoi incontri con massoni e con Licio Gelli. La mafia lo ha ucciso e poi ne ha calpestato la memoria, riprendendo il suo cammino. Ha mascariato con la complicità di una città che però ignava è rimasta fino a un certo punto, chiedendo poi a forza nel 2008 che l’indagine non venisse archiviata.
“Mio padre voleva fare il terapeuta di questa città” ha detto in aula Maddalena Rostagno, la sentenza oggi nel giorno del compleanno di quella ragazza intanto cresciuta e diventata donna in fretta perché dopo che gli ammazzarono il padre le arrestarono anche la madre, Chicca Roveri. Chicca che in aula ha ricordato un procuratore della Repubblica, Coci, che l’assicurò sul fatto dell’inesistenza a Trapani della mafia, “scoprii che non indagavo sulla mafia ma indagavano su di me i carabinieri”.
Questo articolo è tratto da LiberaInformazione
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