Su invito di Dino Paternostro,
direttore di questo giornale on line, ho letto (ho cercato di farlo, ma…) l’esorbitante
articolo del dott. Giuseppe Marchese e quello della prof. Antonella
Campisi. Dino mi diceva che mai, in anni
di esistenza di “Città nuove”, e in anni di notizie e notiziole e articoli e
riflessioni e analisi storiche contenuti su Città nuove, MAI si era avuto un
numero così alto di cliccaggi (passatemi il neologismo) come per questa
appassionante vicenda del crocifisso di Giuliana! Mille e seicento! E sempre in
aumento! Incredibile! Mi sono incuriosita di fronte a cotanto fenomeno
sociologico.
Non sono affatto insensibile a una
dimensione “altra”, “spirituale” a dirla in una parola senza troppi altri giri
di parole. E non è quindi perché mi senta priva di queste “tensioni spirituali”
che trovo la questione veramente... esagerata (ho scelto, non senza una certa
difficoltà, un vocabolo che risuonasse “neutro” per gli animi di quanti sono
coinvolti-sconvolti da tale vicenda).
Solo poche note, le mie. Innanzi tutto
perché non sono cotanto edotta né su questa né su altre storie. E poi giusto
perché anch’io, con tutta la mia buona volontà e curiosità per l’evento, non
sono riuscita a leggere i due precedenti articoli con l’attenzione che entrambi
avrebbero meritato, proprio per l’estrema lunghezza e la trasbordante (e un po’
esibizionistica?) quantità di citazioni in essi contenute (specie in uno, e
dddai!!): a un certo punto ho cominciato a sorvolare le righe, cercando di captarne
il succo. Mi scuserete, quindi, se magari mi saranno sfuggiti particolari
essenziali. Un’altra volta, per essere meglio letti IN UN ARTICOLO (CHE NON E’
UN SAGGIO) siate più… essenziali pure voi.
A una lettura “planante” come la mia,
devo comunque dire che non sono sfuggiti aspetti interessanti in ambedue le
tesi, purtroppo considerate (a giudicare anche dalle note più o meno anonime a
seguire) come antitetiche l’una all’altra. Uno sguardo mooolto meno coinvolto
(e quindi moooolto meno fazioso) come il mio in questo caso, ha riscontrato
invece in entrambe le tesi elementi di riflessione condivisibili, che diventano
invece invisibili agli occhi di chi “patrocina” le fazioni e anche di chi tifa
per l’una o l’altra. Accaniti ciascuno a difesa del proprio pensiero, si
diventa incapaci della benché minima attenzione alle ragioni, anche parziali,
dell’altro. Non è in sé niente di negativo l’esporre tesi opposte, quanto
l’incapacità di ascoltare con più apertura ed elasticità le ragioni dell’altro.
E tifare su temi religiosi O PRESUNTI TALI, di per sé spesso ammantati da
quest’aura di verità assolute! (Dio, se esiste, ci scampi e liberi dalle verità
assolute) mi pare sia veramente quanto di più integralista e pericoloso si
possa fare.
Non faccio appelli alla parola
dirimente né di preti, né di vescovi, né di papi, né di santi, che reputo,
nella migliore delle ipotesi, esseri umani non al di sopra né al di sotto ma al
pari di altri, degni del rispetto che si
deve ad ognuno, ma non detentori di una Parola maiuscolata IN VIRTU’ DELLA LORO
CARICA (caso mai solo in virtù del loro esempio).
Le manifestazioni religiose in sé
possono rappresentare tutto e il contrario di tutto.
A Palermo (non a Giuliana, per
carità!), dove abito, la questua per le feste di santi e madonne rionali,
attuata da certe confraternite (in competizione fra loro per chi apparecchia la
festa più più più) è spesso un modo camuffato di chiedere una sorta di pizzo,
in mancanza di una seria e pubblica gestione del denaro raccolto. Denaro che,
nella migliore delle ipotesi, viene speso per cantanti napoletani, luminarie,
fuochi d’artificio, ricchi premi e cotillons, senza che un solo centesimo venga
devoluto per creare qualcosa di meno effimero ed utile in quartieri spesso
deprivati di molte cose necessarie.
E non posso non pensare alle letture
“religiose” di Provenzano, o alle messe fatte posto-casa al latitante boss
Aglieri, e fino ad oggi vedo sul giornale la foto del cardinale Romeo accanto
al capo di una confraternita “religiosa”, tale mafioso Comandè. SENZA FARE DI
TUTTA L’ERBA UN FASCIO, non posso non pensare che, a partire dai boss a finire
alle mezzetacche dei loro accoliti, sono stati e sono ancora abituali
frequentatori di processioni, messe, battesimi e quant’altro.
E non posso non pensare a chi (facendo
appello alle imprescindibili radici cristiane dell’Italia!) butterebbe a mare
le migliaia di esseri umani che premono alle nostre porte, fuggendo da guerre e
povertà spesso causate dallo sfruttamento e dall’arricchimento della nostra
civiltà (cristiana?!?!) assorbi-energie, divora-risorse e vendi-armi.
Insomma, far parte di confraternite,
andare a processioni, battersi il petto e recitare miserere, non è in sé
garanzia proprio di niente.
Nel nome di dio (di un dio che
volutamente voglio scrivere con la minuscola), e di un dio “trasversale” e
“interreligioso”, si sono fatte crociate, eretti campi di concentramento, fatti
genocidi… e fino ad oggi si rapiscono centinaia di ragazze da una scuola per
farne non si sa cosa se non schiave. A
certi livelli le tifoserie, da stadio o da chiesa che siano, non portano che
distruzione e morte. Certo, a Giuliana nessuno si farà esplodere da kamikaze,
nessuno erigerà campi di sterminio o proclamerà guerre “sante”! A Giuliana,
semplicemente, ci si appiattirà su questioni come questa, secondo me veramente
irrilevanti (non solo per me, che non lo sono, ma anche, suppongo, agli occhi
di un vero cristiano) “semplicemente” avvitandosi a un pur giusto concetto di
tradizione o al suo opposto. Punto e stop.
Dimenticando che, come disse non so
chi (ecco, non so fare le citazioni!) “Più pericoloso delle azioni degli
ingiusti è il silenzio dei giusti”. Silenzio sulla miriade di violenze e guerre
e fame e schiavitù e povertà che percuotono il nostro comune pianeta, di fronte
alle quali magari non levare un dito o una voce, intenti come siamo ad
imbullonarci nel nostro microcosmo, fatto di microcosette e microquestioncelle
che il resto del mondo lo lasciano brutto e ingiusto, così come troppo spesso è,
anche grazie al nostro semplice, buono, quotidiano fottercene.
Maria di Carlo
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