L'identikit di Matteo Messina Denaro |
di ATTILIO BOLZONI e SALVO PALAZZOLOLo cercano dal 1993. Hanno sequestrato beni per 3,5 miliardi ai suoi prestanome E troppe volte è misteriosamente sfuggito alla cattura. Ora però qualcuno ha visto da vicino la primula rossa della mafia disegnando questo identikit che lo rende meno “invisibile”. PALERMO - Eccolo, il volto del latitante
più ricercato d'Italia, ecco l'ultimo identikit del mafioso che tutti cercano
ma che nessuno trova. La faccia di Matteo Messina Denaro com'è oggi, a più di
vent'anni da lontanissime e sbiadite foto segnaletiche. L'hanno disegnata i
finanzieri del Gico, indagini nel cuore della Sicilia e informazioni da fonti
riservate. C'è qualcuno che l'ha visto da vicino.
Con quest'immagine, l'uomo che tutti inseguono ma che è sempre libero, adesso è
un po' meno invisibile, sempre più isolato da quell'esercito di complici che
copre la sua clandestinità. Un viso gonfio, la fronte ampia e stempiata, le
labbra molto sottili, un naso pronunciato, gli occhi scuri. Il tempo è passato
anche per lui.
È tutto quello che abbiamo di questo boss del clan dei Corleonesi. Nessuna
telecamera segreta è riuscita mai a farcelo vedere, nessuna microspia ha mai
trasportato la sua voce.
È un identikit che probabilmente peserà sulla sua latitanza. È una traccia, una delle poche intorno a un boss considerato un fantasma.
È un identikit che probabilmente peserà sulla sua latitanza. È una traccia, una delle poche intorno a un boss considerato un fantasma.
Da mesi e mesi i rumors annunciano "imminente
" o addirittura "certa" la sua cattura, ma lui - che
compirà 52 anni il prossimo 26 aprile e che è alla macchia dal 2 giugno 1993
come mandante ed esecutore per le bombe di Firenze, Roma e Milano -
è sempre nascosto nel suo regno di Castelvetrano. Gli hanno fatto terra
bruciata intorno, i pm di Palermo guidati dal procuratore aggiunto Teresa
Principato: sono finiti in carcere centinaia di favoreggiatori, l'hanno
impoverito sequestrando ai suoi prestanome beni per 3,5 miliardi di euro. Ma
Matteo Messina Denaro, chiamato "Diabolik" dai suoi vecchi amici e
"Testa dell'Acqua " dai suoi seguaci in adorazione, resta sempre il
ricercato numero 1 nel bollettino del ministero dell'Interno.
Il nuovo identikit lo farà sentire meno sicuro, più vulnerabile. Anche perché sulla sua testa c'è sempre quel " wanted ", la taglia di 1 milione e mezzo di euro di ricompensa a chi fornirà informazioni utili per stanarlo.
Il "ritratto" è stato ultimato qualche settimana fa dagli investigatori dei reparti antimafia della Finanza di Palermo e il procuratore aggiunto Principato l'ha trasmesso a tutte le squadre impegnate nella grande caccia: Ros dei carabinieri, Sco della polizia, Dia. È una svolta nell'inchiesta. Quest'immagine non è una "rielaborazione al computer", come quella eseguita tre anni fa dagli esperti della polizia scientifica con la tecnica dell'Age Progression per ottenere un "invecchiamento ", ma è un identikit vero, proveniente da precise indicazioni di chi lo conosce e lo incontra.
Sulle "fonti" c'è segretezza assoluta, come sulle indagini andate avanti fra tanti ostacoli (e sospetti) negli ultimi due anni. Troppe volte gli sono stati con il fiato sul collo e troppe volte il boss è misteriosamente sfuggito, troppe volte avevano dato per scontato che era in trappola e altrettante volte "Diabolik" ha anticipato le mosse di chi stava alle sue spalle. Soffiate. Depistaggi. E sin dalla fine degli anni Novanta. Una storia che ricorda tanto le mancate catture di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, il primo latitante per quasi mezzo secolo e l'altro per 43 anni. Una libertà protetta. Una libertà, secondo qualcuno, assicurata da un grande tesoro che sarebbe nelle mani di Matteo Messina Denaro: l'archivio segreto di Totò Riina, un deposito di nomi e ricatti che gli avrebbe garantito un'immunità assoluta per più di vent'anni. È uno dei personaggi più enigmatici di Cosa Nostra. La rivista americana Forbes l'ha inserito nell'elenco dei criminali "più ricchi del mondo", al quinto posto per pericolosità
appena dietro a Osama Bin Laden prima della sua morte e a gangster russi e narcos messicani (è sempre il magazine Usa a stilare la graduatoria), Matteo Messina Denaro è l'ultimo dei Corleonesi conosciuti, figlio del campiere dei latifondisti D'Alì di Trapani, un legame speciale con Totò Riina e i Graviano di Brancaccio.
Da ragazzo andava in giro in Porsche ed esibiva Rolex, in età adulta - saranno le responsabilità di tenere in piedi l'organizzazione o più probabilmente le paure di essere acciuffato - non ha dato segni diretti di sé dal giorno che è diventato un latitante. Solo "pizzini", mandati in ogni angolo della Sicilia. Ma, anno dopo anno, è stata smantellata la sua catena di protezione. Centinaia di "sostenitori" fra Palermo, Trapani e soprattutto la sua Castelvetrano. Imprenditori che si erano intestati i suoi beni (lui risulta ufficialmente un coltivatore diretto), villaggi turistici, affari nelle energie pulite, calcestruzzi, grande distribuzione, commesse pubbliche, smaltimento rifiuti, aziende vinicole e di ristorazione, ospizi per anziani, case di cura, cantieri navali. E, alla fine, nella rete sono caduti anche familiari molto stretti.
L'ultima operazione che gli ha fatto il vuoto intorno è nel dicembre del 2013, quando i carabinieri intercettano un'anziana zia di Matteo - Rosa - che si dà un gran da fare per fargli avere con urgenza, attraverso altri parenti, 8mila euro. I soldi arrivano da un paio di imprenditori che, poco prima di Natale, vengono arrestati insieme a Patrizia Messina Denaro, la sorella del boss.
"È lei che gestisce il traffico dei pizzini da e per Matteo", rivela il giorno dopo il blitz Lorenzo Cimarosa, un altro dei prestanome finiti in carcere. Ma Cimarosa non è uno qualunque, è un parente, un cugino acquisito di "Diabolik". È la prima volta che dentro la famiglia qualcuno tradisce quello che viene considerato l'ultimo anello della mafia che ha voluto la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992, che ha voluto le stragi in Continente del 1993. "Non sono un pentito - ha messo a verbale Cimarosa davanti ai sostituti Marzia Sabella e Paolo Guido e al procuratore aggiunto Teresa Principato - ma voglio parlare, perché sono esasperato, e non solo io, dai continui arresti, dalle perquisizioni, dai sequestri che fate per arrivare a Matteo Messina Denaro".
E ha cominciato a parlare di lui: "Dopo l'arresto di mio cognato Giovanni Filardo, io mi sono occupato del sostentamento del latitante e della sua famiglia". L'azienda di Cimarosa, la "M. G. costruzioni" intestata ai due figli, era una sorta di bancomat per Matteo Messina Denaro. E ancora: "Negli ultimi tempi gli ho fatto avere 60mila euro. A dicembre 8mila". Cimarosa dice di non sapere dove si nasconde il superlatitante, però ha raccontato le cautele che Patrizia Messina Denaro utilizzava per muoversi intorno a Castelvetrano. Gli investigatori sospettano che Matteo sia ancora lì, nel cortile di casa sua. Ipotesi non scontata: fino a qualche tempo fa c'erano voci di una sua fuga all'estero.
Ora si sente forte il suo odore fra Castelvetrano e i paesi affacciati sul mare africano. Ora gli investigatori hanno in mano il nuovo identikit.
Resta solo un dubbio: è davvero lui l'erede dei Corleonesi? Nelle sue interminabili chiacchiere, dentro il carcere di Opera, Totò Riina ne ha parlato male facendo capire che è uno che si fa troppo i fatti suoi. È la verità o il vecchio Riina vuole mischiare ancora una volta le carte?
Il nuovo identikit lo farà sentire meno sicuro, più vulnerabile. Anche perché sulla sua testa c'è sempre quel " wanted ", la taglia di 1 milione e mezzo di euro di ricompensa a chi fornirà informazioni utili per stanarlo.
Il "ritratto" è stato ultimato qualche settimana fa dagli investigatori dei reparti antimafia della Finanza di Palermo e il procuratore aggiunto Principato l'ha trasmesso a tutte le squadre impegnate nella grande caccia: Ros dei carabinieri, Sco della polizia, Dia. È una svolta nell'inchiesta. Quest'immagine non è una "rielaborazione al computer", come quella eseguita tre anni fa dagli esperti della polizia scientifica con la tecnica dell'Age Progression per ottenere un "invecchiamento ", ma è un identikit vero, proveniente da precise indicazioni di chi lo conosce e lo incontra.
Sulle "fonti" c'è segretezza assoluta, come sulle indagini andate avanti fra tanti ostacoli (e sospetti) negli ultimi due anni. Troppe volte gli sono stati con il fiato sul collo e troppe volte il boss è misteriosamente sfuggito, troppe volte avevano dato per scontato che era in trappola e altrettante volte "Diabolik" ha anticipato le mosse di chi stava alle sue spalle. Soffiate. Depistaggi. E sin dalla fine degli anni Novanta. Una storia che ricorda tanto le mancate catture di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, il primo latitante per quasi mezzo secolo e l'altro per 43 anni. Una libertà protetta. Una libertà, secondo qualcuno, assicurata da un grande tesoro che sarebbe nelle mani di Matteo Messina Denaro: l'archivio segreto di Totò Riina, un deposito di nomi e ricatti che gli avrebbe garantito un'immunità assoluta per più di vent'anni. È uno dei personaggi più enigmatici di Cosa Nostra. La rivista americana Forbes l'ha inserito nell'elenco dei criminali "più ricchi del mondo", al quinto posto per pericolosità
appena dietro a Osama Bin Laden prima della sua morte e a gangster russi e narcos messicani (è sempre il magazine Usa a stilare la graduatoria), Matteo Messina Denaro è l'ultimo dei Corleonesi conosciuti, figlio del campiere dei latifondisti D'Alì di Trapani, un legame speciale con Totò Riina e i Graviano di Brancaccio.
Da ragazzo andava in giro in Porsche ed esibiva Rolex, in età adulta - saranno le responsabilità di tenere in piedi l'organizzazione o più probabilmente le paure di essere acciuffato - non ha dato segni diretti di sé dal giorno che è diventato un latitante. Solo "pizzini", mandati in ogni angolo della Sicilia. Ma, anno dopo anno, è stata smantellata la sua catena di protezione. Centinaia di "sostenitori" fra Palermo, Trapani e soprattutto la sua Castelvetrano. Imprenditori che si erano intestati i suoi beni (lui risulta ufficialmente un coltivatore diretto), villaggi turistici, affari nelle energie pulite, calcestruzzi, grande distribuzione, commesse pubbliche, smaltimento rifiuti, aziende vinicole e di ristorazione, ospizi per anziani, case di cura, cantieri navali. E, alla fine, nella rete sono caduti anche familiari molto stretti.
L'ultima operazione che gli ha fatto il vuoto intorno è nel dicembre del 2013, quando i carabinieri intercettano un'anziana zia di Matteo - Rosa - che si dà un gran da fare per fargli avere con urgenza, attraverso altri parenti, 8mila euro. I soldi arrivano da un paio di imprenditori che, poco prima di Natale, vengono arrestati insieme a Patrizia Messina Denaro, la sorella del boss.
"È lei che gestisce il traffico dei pizzini da e per Matteo", rivela il giorno dopo il blitz Lorenzo Cimarosa, un altro dei prestanome finiti in carcere. Ma Cimarosa non è uno qualunque, è un parente, un cugino acquisito di "Diabolik". È la prima volta che dentro la famiglia qualcuno tradisce quello che viene considerato l'ultimo anello della mafia che ha voluto la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992, che ha voluto le stragi in Continente del 1993. "Non sono un pentito - ha messo a verbale Cimarosa davanti ai sostituti Marzia Sabella e Paolo Guido e al procuratore aggiunto Teresa Principato - ma voglio parlare, perché sono esasperato, e non solo io, dai continui arresti, dalle perquisizioni, dai sequestri che fate per arrivare a Matteo Messina Denaro".
E ha cominciato a parlare di lui: "Dopo l'arresto di mio cognato Giovanni Filardo, io mi sono occupato del sostentamento del latitante e della sua famiglia". L'azienda di Cimarosa, la "M. G. costruzioni" intestata ai due figli, era una sorta di bancomat per Matteo Messina Denaro. E ancora: "Negli ultimi tempi gli ho fatto avere 60mila euro. A dicembre 8mila". Cimarosa dice di non sapere dove si nasconde il superlatitante, però ha raccontato le cautele che Patrizia Messina Denaro utilizzava per muoversi intorno a Castelvetrano. Gli investigatori sospettano che Matteo sia ancora lì, nel cortile di casa sua. Ipotesi non scontata: fino a qualche tempo fa c'erano voci di una sua fuga all'estero.
Ora si sente forte il suo odore fra Castelvetrano e i paesi affacciati sul mare africano. Ora gli investigatori hanno in mano il nuovo identikit.
Resta solo un dubbio: è davvero lui l'erede dei Corleonesi? Nelle sue interminabili chiacchiere, dentro il carcere di Opera, Totò Riina ne ha parlato male facendo capire che è uno che si fa troppo i fatti suoi. È la verità o il vecchio Riina vuole mischiare ancora una volta le carte?
Fonte: La Repubblica
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