Stefano Rodotà |
Quale altra parola adoperare se non autoritarismo quando il Parlamento è minacciato di continuo di essere “mandato a casa”?
di Stefano Rodotà
DA ANNI è aperta una riflessione critica sulla democrazia che giunge fino a certificarne la sostanziale scomparsa. Parole
nuove e vecchie s’intrecciano: postdemocrazia e controdemocrazia,
iperdemocrazia e ultrademocrazia. Si indagano le ragioni che hanno dato origine
a quello che Jacques Rancière ha definito «l’odio per la democrazia» o che,
meno radicalmente, Carlo Galli chiama «il disagio» della democrazia.
È il tempo del disincanto? Certo è che oggi ben pochi sarebbero disposti a dire che «i mali della democrazia si curano con più democrazia», che è stata la bussola indicata da T. B. Smith agli americani e che, comunque, rimane un ammonimento a non abbandonarsi alle semplificazioni, a non cedere alla tentazione di liberarsi dei problemi impoverendo la democrazia, riducendola ad un involucro sempre più misero nei contenuti.
La democrazia
vittima del suo successo, dell’eccesso di domande che essa stessa produce,
della contraddizione tra i suoi tempi distesi e l’imperiosa richiesta di
velocità da parte di chi contempla solo il bene della decisione? Scarnificata
dei diritti, sottomessa alla logica economica e finanziaria, sfidata dalla
tecnologia, la democrazia sembra non reggere alla forza delle cose e cerca
all’esterno una ragion d’essere che non ritrova più in se stessa. I tempi
difficili suggerirebbero che non possiamo più permetterci i lussi della
democrazia. E quindi via gli equilibri tra poteri bilanciati, riduzione d’ogni
forma di controllo parlamentare o giudiziario, soprattutto fine dell’illusione
rappresentativa. Da molto tempo sentiamo ripetere che le elezioni non servono
per dare rappresentanza ai cittadini, ma per investire un governo. La
democrazia “d’investitura” viene presentata come l’unica accettabile.È il tempo del disincanto? Certo è che oggi ben pochi sarebbero disposti a dire che «i mali della democrazia si curano con più democrazia», che è stata la bussola indicata da T. B. Smith agli americani e che, comunque, rimane un ammonimento a non abbandonarsi alle semplificazioni, a non cedere alla tentazione di liberarsi dei problemi impoverendo la democrazia, riducendola ad un involucro sempre più misero nei contenuti.
Ma proprio a questo punto s’incontrano paradossi e contraddizioni. Di fronte a noi stanno la rinnovata presa dei populismi, nei quali si manifesta pure una reazione alle pesanti chiusure oligarchiche, e le promesse della Rete, con la tecnologia elettronica presentata come un soccorso alla democrazia morente. Entrambe queste spinte concorrono nel corrodere la democrazia rappresentativa. E il paradosso sta nel fatto che, dietro l’enfasi posta sul trasferimento al popolo d’ogni potere, si scorge troppo spesso una nuova maniera per concentrarlo. L’astuzia tecno-populista sembra così indicare pure la strada per «sciogliere il popolo», secondo l’ironica espressione di Bertolt Brecht. O, almeno, per approdare ad una “democrazia senza popolo”, liberata da quei conflitti che pure sarebbero nella sua natura e che, esclusi dalla sfera istituzionale, si riproducono nella sfera sociale in modo virulento, incentivando interventi autoritari, in una spirale che logora gli stessi residui democratici.
Questi problemi non sono eludibili, perché la democrazia va certamente ripensata, come altre volte è storicamente avvenuto, in un contesto in cui i tradizionali mediatori sociali, i partiti di massa in primo luogo, scompaiono o devono fare i conti con un sistema informativo che non solo incide sulla comunicazione, ma sulle forme dell’organizzazione e della partecipazione dei cittadini. In Italia, peraltro, la discussione sulla democrazia rappresentativa non può essere scansata con una mossa infastidita, come un perditempo teorico, perché è stata rimessa al centro dell’attenzione dalla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità del Porcellum , indicando nell’effettività della rappresentanza la condizione necessaria per la legittimità delle leggi elettorali.
Ma, affrontando il grande tema del rapporto tra democrazia e rappresentanza, la Corte ne ha giustamente allargato l’orizzonte. Nel luglio scorso, dunque ben prima della decisione sul Porcellum, in una sentenza originata da un ricorso della Fiom contro l’esclusione dei propri rappresentanti da parte della Fiat si è sottolineata l’essenzialità della garanzia della rappresentanza, non solo per i sindacati, ma per i singoli lavoratori. E, modificando un suo precedente orientamento, la Corte ha messo in evidenza un mutamento di contesto, determinato dalla fine dell’unità sindacale e dal moltiplicarsi dei sindacati, sottolineando così il nesso tra rappresentanza e pluralismo. Il principio di rappresentanza diviene così la misura della legittimità delle istituzioni e dell’agire sociale, e dovrebbe essere massimamente tenuto in considerazione quando si interviene su aspetti essenziali dell’ordine costituzionale. Ma la discussione in corso sta mostrando l’inadeguatezza culturale dei riformatori, che sembrano del tutto inconsapevoli degli effetti sul sistema delle loro proposte. E, come capita quando una cultura approssimativa si sente a disagio, e quindi non è in grado di discutere seriamente, si inventa un nemico esterno, il professore o il parlamentare indisciplinato, e si chiama conservatorismo quel che non si è in grado di comprendere.
Se si considera il punto d’avvio del progetto di riforma, il cosiddetto Italicum, diviene subito evidente la sua distanza dal quadro costituzionale, teso com’è a limitare la rappresentanza e a deprimere il pluralismo, oltre ogni giustificazione addotta in nome della governabilità. Tutto questo è frutto d’una logica politica che ha affidato la riforma elettorale all’inedito duo Renzi-Berlusconi, che hanno ritagliato un figurino sulle esigenze dei loro partiti. Scelta palesemente strumentale e fragile, tanto che quel patto già vacilla per il timore di un crollo elettorale di Forza Italia e di una ascesa al secondo posto del Movimento 5Stelle. Ma rimane una sostanza fatta di accentramento di poteri nel Governo, di riduzione del ruolo della Camera dei deputati che, già svuotata dalla sua mancanza di rappresentatività, viene configurata come luogo di ratifica delle decisioni governative. E tutto questo incide sul complesso delle garanzie riguardanti i diritti dei cittadini.
La conclusione è una curvatura autoritaria del sistema. La parola può sconcertare, ma oggi viviamo tempi in cui l’autoritarismo non passa per i metodi aggressivi conosciuti in passato. E quale altra parola adoperare quando il Parlamento, già espropriato dell’iniziativa in una materia che lo vorrebbe protagonista, è continuamente minacciato d’essere “mandato a casa” se non vota docilmente testi elaborati fuori d’ogni vera procedura democratica (e della grammatica costituzionale)?
Una riforma consapevole delle attuali difficoltà della democrazia dovrebbe contemplare l’orizzonte più largo in cui questa ormai si pone, e muovere da un doppio ripensamento della rappresentanza: nel suo rapporto con le procedure di decisione e con la partecipazione dei cittadini. Non sarebbe una impresa difficile. Ma richiede una cultura simile a quella che, nel Trattato di Lisbona, affianca democrazia rappresentativa e partecipativa; che sia consapevole della necessità di rispettare l’equilibrio tra i poteri; che guardi alle tecnologie come strumenti che, saggiamente adoperati per ampliare le iniziative dei cittadini, consentano di iniziare tragitti dove la democrazia torna ad incontrare il suo popolo.
La Repubblica 25.4.14
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