Da Giovanni Fiandaca a Umberto Santino, da Lanza Tomasi, Franco Battiato e
giornalisti impegnati e diligenti: l’antimafia politica non ha perso
solo smalto, ma credito. Tutto in un colpo, nel giro di pochi mesi. Per
quale ragione? L’insofferenza verso l’uso e l’abuso dell’antimafia per
giustificare decisioni, provvedimenti, atteggiamenti, comportamenti, gesti e
parole della politica segnate “artificiosamente” dall’imprinting antimafioso.
La dèbacle dell’antimafia politica, tuttavia, si è svolta in Sicilia. Il
presidente della Regione, Rosario Crocetta, ha fatto
passare ogni discorso politico, economico, partitico, culturale,
attraverso il filtro dell’antimafia. La corruzione, le
clientele, le frodi, le malandrinate sono diventate mafia e solo mafia. Il
buono governo è solo antimafia, il cattivo governo mafia. I provvedimenti
amministrativi, il cambio di vertici istituzionali, le nomine hanno subito il rating
antimafia.
Le minacce e le intimidazioni piuttosto che la competenze, l’esperienza, i
curricula, sono divenuti“titoli” di accesso alle stanze dei bottoni.
I rapporti fra partiti ed all’interno dei partiti, hanno sono hanno subito
il rating antimafia. Le scelte delle candidature alle elezioni, le
nomine degli assessori, il giudizio sul loro operato, sono stati fortemente
condizionati dall’antimafia politica. Le tangenti sono state pagate da chi
organizza le feste antimafia, le carovane della legalità, i concorsi per
l’antimafioso dell’anno.
Le patenti d’antimafia sono servite talvolta per incoraggiare carriere
politiche e tutelare gli interessi degli amici. Eolico, raccolta dei
rifiuti, inceneritori e discariche sono passati al vaglio
dell’antimafia invece che della convenienza e l’interesse pubblico.
E’ accaduto altro.
La trattativa Stato mafia è uscita dai tribunali e dalle stanze delle
Procure per invadere l’opinione pubblica, gettando discredito
sui rappresentanti delle istituzioni, a cominciare dal Presidente della
Repubblica: sospetti, accuse, denunce che hanno creato un fronte
“giustizialista”, bocciato dall’elettorato.
Il lavoro della magistratura inquirente è apparso, senza esserlo,
funzionale alla costruzione di un movimento in grado di scardinare gli
equilibri politici: ha raccolto attenzioni ed attese nell’area della protesta
d’èlite, (vertici M5s, cronaca giudiziaria dei quotidiani “di punta” ecc.), ma
ha registrato un flop elettorale di proporzioni disastrose e
provocato, a seconda delle sensibilità, repulsioni o indifferenza verso
questioni di straordinaria rilevanza per il governo della cosa pubblica e la
convivenza civile.
Si ricordi la sconcertante stagione delle “rivelazioni” provenienti dal carcere
di Opera, luogo di detenzione dell’ex grande capo della mafia siciliana, Totò
Riina, trasformato dopo un quarto di secolo circa in un padrino
temibilissimo in grado di dare lo scacco matto allo Stato. Magistratura e
polizie sono apparse, senza esserlo, alla mercé del detenuto, quasi che
fosse Totò u Curtu a far trottare tutti quanti.
Invece che suscitare attenzioni nuove ed utili sul processo per la
trattativa antimafia, il “fantasma” di Opera - tornato capo dei capi
grazie a video, registrazioni audio tracimate sui tavoli delle redazioni di
mezzo mondo – ha insinuato dubbi e provocato scetticismo nell’opinione
pubblica, sconcertata dalla manipolazione mediatica dell’uomo che ha
fatto del silenzio la sua religione. Un autenticoboomerang.
Oggi siamo al punto che
in Sicilia la nascita di un governo, la composizione di una lista di candidati,
le nomine a enti prestigiosi (Orchestra sinfonica) siano collegate al rating di
antimafiosità, e le dimissioni di un assessore, ad appena qualche giorno dalla
nomina, siano spiegate con un complotto mafioso.
Giuristi di prestigio, come Giovanni Fiandaca, uomini di cultura, come
Lanza Tomasi, Franco Battiato, Umberto Santino hanno espresso, forte e chiaro
il loro dissenso verso l’abuso dei simboli antimafiaper distribuire
incarichi istituzionali e influenzare le carriere politiche.
Qualcosa è cambiato, davvero.
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