Sal Palmeri, originario di Roccamena (Pa) |
di LILIANA ROSANO
Per mezzo secolo il suo program- ma radio ha mantenuto vicini all'Italia
i connazionali emigrati a New York: "Gli italiani che arrivarono in
America negli anni cinquanta, sessanta e settanta, erano molto legati alla
musica italiana. Oggi non c’è lo stesso entusiasmo di allora"
Un pezzo della storia dell’emigrazione italiana passa anche da lui. Con la sua voce radiofonica inconfondibile ha portato la musica italiana
nel Nuovo Mondo, tra nostalgia e vecchi ricordi, costruendo un ponte tra
l’Italia e gli Stati Uniti, una finestra dall’Italia sul continente americano.
Un ponte musicale che è diventato per 48 anni e mezzo un appuntamento
immancabile per i radioascoltatori italiani e italofili negli Stati Uniti. I
suoi microfoni hanno dato voce a gran parte dei più importanti musicisti
italiani, da Domenico Modugno, Gianni Morandi, Al Bano, Little Tony, Mino
Reitano, Bobby Solo ai Pooh oltre al fatto che sul palco del Festival della
Canzone Italiana di New York, di cui Palmeri è stato presentatore e direttore
artistico, si sono esibiti i più grandi artisti.
Sal Palmeri, conduttore di “Buongiorno Italia”, ha spento i microfoni di
radio ICN di New York, da lui fondata, lo scorso luglio. Con il passaggio della
radio al digitale, Sal, decide di chiudere la trasmissione, lavorando a qualche
nuovo progetto che potrebbe partire subito. Emigrato da un piccolo paesino
siciliano, Roccamena di Sicilia, nel 1958 sbarca a New York con la famiglia. Davanti
a lui, l’America di fine anni '50, ricca di promesse e di un avvenire
prosperoso e di successo. Sal ha subito le idee chiare. Vuole diventare un
attore. Per questo inizia a frequentare un corso di recitazione all’Hunter
College e con la curiosità di un giovane teenager si appassiona anche di
musica, con un’esperienza da deejay, fino a quando diventa l’anchorman
della radio italo-americana.
Sal, tu sei arrivato a 16 anni a New York. Come era l’America di allora
agli occhi di un ragazzo siciliano?
Allora venire negli Stati Uniti era come vincere la lotteria. Non era
facile emigrare neanche negli anni cinquanta. Noi ragazzi sognavamo l’America
ricca, stupenda, meravigliosa. La Sicilia che mi sono lasciato alle spalle era
quella del dopoguerra: povera e contadina. Si sopravviveva. Il primo impatto
con il mondo americano non è stato per niente facile. A casa mia si
parlava siciliano, a scuola ho avuto difficoltà, agli inizi, ad imparare la
lingua. Tutti ostacoli che poi ho superato con il tempo.
Come inizia la tua carriera?
Dopo circa sei mesi che ero a New York, durante una trasmissione radio,
Alberto Landi, uno degli impresari italo-americani, annuncia alla radio che era
alla ricerca di un attore per un suo spettacolo. A Maggio del 1959 iniziai la
mia carriera di attore teatrale e nel frattempo mi iscrissi all’Hunter College
per un corso di recitazione. Trovare lavoro per me, nel mercato americano, è
stato difficile anche a causa del mio forte accento italiano, cosa che allora
rappresentava un problema.
Poi arriva però la radio
Uno dei produttori teatrali mi suggerì, per caso, di fare radio. Mi
presentai al colloquio dove cercavano un conduttore italiano per una radio
americana. Mi offrirono la conduzione del programma chiedendomi però che fossi
io stesso a cercarmi gli sponsor. Mi sono messo subito alla ricerca degli
sponsor e dal giorno dopo iniziò la mia avventura. Per quarant’otto anni e
mezzo, il mio programma di un’ora e mezzo al giorno, è diventato un
appuntamento fisso. Il mio format ha avuto sempre successo perché la musica è
stata un veicolo per diffondere la cultura italiana.
Il tuo pubblico come è cambiato negli anni?
Gli italiani che arrivarono in America negli anni cinquanta, sessanta e
settanta, erano molto legati alla musica italiana. Oggi non c’è lo stesso
entusiasmo di allora. In parte perché la comunità italo-americana, quella della
quarta generazione, ha perso il contatto con la lingua e la cultura italiana
allontanandosi dal nostro paese. Il mio pubblico è sempre stato italiano o
italo-americano. Ho anche coinvolto una piccola parte del pubblico americano ma
è stato difficile per via della lingua. Il pubblico italo-americano ama la
canzone classica italiana, compresa quella partenopea. Io ho sempre cercato di
promuovere quel tipo di musica, lasciando sempre una finestra aperta per la
musica italiana contemporanea.
Ci sono però degli artisti italiani che oggi non riscuotono grande successo
nel pubblico americano o che non riescono ad entrare nel mercato musicale
statunitense. Secondo te perché?
Io credo che dipenda dal genere. Andrea Bocelli è una super star perché
propone un genere tutto italiano: l’opera. Artisti come Jovanotti che da noi
sono famosi, in America, non riescono a conquistare un grosso pubblico perché
si propongono con un genere, in questo caso quello rap, in cui gli americani
sono dei maestri. Altri cantautori italiani, come De Gregori, Battiato,
Capossela, hanno testi spesso difficili per gli americani. Nei loro tour, non
riescono a coinvolgere un pubblico vastissimo come quello che avrebbero in
Italia.
Tu che vivi a New York ormai da più di cinquanta anni, come è cambiata la
Grande Mela in questi anni?
A New York, negli anni settanta, la gente era più semplice, si divertiva,
non aveva molte pretese, c’era un rapporto umano più diretto, ravvicinato. Oggi
culturalmente, la città rimane sempre il centro del mondo e il cuore pulsante
della musica e della cultura.
Il tuo rapporto con la Sicilia invece?
Sono l’unico, dei tre fratelli, che ha mantenuto un legame solido e forte
con l’Italia e con la Sicilia. Sono l’unico infatti che parla italiano perché
per lavoro, e non solo, dovevo andare in Italia per aggiornarmi anche dal punto
di vista linguistico. Ritorno ogni anno in Sicilia e amo visitare il piccolo
paese, da dove sono partito. Sono legato alle feste di paese, alle tradizioni.
Mi piace perdermi nei vicoli e assaporare con nostalgia vecchi ricordi.
Sono stato felice e onorato quando nel 1996 mi hanno premiato con il
riconoscimento “Siciliano nel mondo”. La Sicilia è di certo cambiata molto in
questi anni. E’ più moderna, si è sviluppata anche se dal punto di vista
culturale la mentalità non è completamente cambiata. Bisogna che gli italiani,
i siciliani, siano meno restii ai cambiamenti, meno provinciali.
Come hai invece vissuto il rapporto con tuo padre e con la tua famiglia. Tu
che da siciliano giovane, sei cresciuto in un ambiente americano ma con una famiglia
siciliana tradizionale.
La conflittualità era sicuramente una parte costante del rapporto. Ricordo
che mio padre voleva che trovassi subito un lavoro “tradizionale”, una volta
sbarcati a New York. Non capiva perché volessi fare l’attore e studiare
recitazione. Per non parlare quando gli dissi che avevo trovato lavoro alla
radio ma che dovevo trovarmi degli sponsor, non capì e mi disse perché non mi
trovavo un “lavoro vero”. Vivendo però a New York, frequentando le scuole in
America, non potevo non formarmi con una mentalità americana.
Dopo 48 anni e mezzo, lo scorso Luglio, hai salutato i tuoi
radioascoltatori, chiudendo il tuo storico programma.
La mia scelta è stata dettata dal fatto che dopo aver venduto ICN Radio ad
America Oggi, quest’ultima ha deciso di sospendere la programmazione via etere.
Non mi sentivo di condurre un programma su internet. In cantiere ci sono però
nuovi progetti.
La
Voce di New York, 23 Febbraio
2014
Giornale online protetto dal Primo
Emendamento della Costituzione USA
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