di Piero
Innocenti
Parlare, ancora oggi, in Italia, di
persone ridotte in schiavitù (o mantenute in stato di servitù) e di tratta di
esseri umani, può sembrare un argomento irreale, fuori dal tempo. Invece,
nonostante le innumerevoli norme contenute in convenzioni internazionali,
trattati, accordi, solenni dichiarazioni che vietano e condannano queste
condotte, le statistiche ci indicano la triste realtà di persone ridotte in una
condizione simile a quella di una “cosa” posseduta da altri. Sia chiaro, è un
fenomeno disgustoso che in diversi paesi nel mondo assume anche dimensioni
drammatiche come emerge dai consueti rapporti annuali dell’Unodc (quello
relativo al 2013 è in fase di elaborazione) e, per ultimo (ottobre 2013) dalla
Ong australiana “Walk free” secondo cui circa trenta milioni di persone si
trovano in condizioni di schiavitù.
Ma anche nel nostro Paese i dati statistici
nazionali devono indurre a serie riflessioni. Solo nel 2013, le forze di
polizia hanno segnalato alla magistratura (dati non ancora definitivi a
febbraio 2014) 228 persone per il delitto di riduzione in schiavitù (art.600
del C.P.) e 72 per quello di tratta (art.601). Per entrambi questi delitti, la
Campania è in testa alla graduatoria nazionale, rispettivamente, con 43 e 33
persone denunciate, seguita dalla Lombardia con 31 e 9. Il Veneto ha registrato
16 persone denunciate per riduzione in schiavitù e nessuna per la tratta.
Molise e Marche sono risultate le uniche due regioni “indenni” da queste due
ipotesi delittuose. Che il fenomeno criminale sia oggetto di attenzione
investigativa lo si può dedurre anche dai dati relativi al quadriennio
2009/2012 (fonte: Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Roma): ben 1.279 le
persone di varie nazionalità denunciate complessivamente per la violazione
dell’art.600 e 423 per la tratta. Occorrerà, poi, vedere, come vanno i
processi. Sta di fatto che, nel 2012 sarebbero state 32 le condanne per tratta
e solo una nel 2013 secondo quanto riportato nella relazione allegata al testo
del decreto legislativo che deve ratificare la direttiva 2011/36/UE sulla
tratta. In molti, me compreso, si auspicano che un sistema normativo nazionale
così migliorato possa comportare uno slancio nella prevenzione e nella
repressione degli episodi di criminalità in questione. Tuttavia, non si può non
ricordare, con delusione, come su questi fenomeni, da oltre un secolo, si siano
firmati accordi, fatte convenzioni internazionali, rilasciate solenni
dichiarazioni con risultati davvero modesti. A partire, si badi bene, dal 18
maggio 1904 (110 anni fa!) quando fu deciso di “garantire” una protezione
efficace contro il traffico criminale conosciuto sotto il nome di tratta delle
bianche. Si sono succedute le due convenzioni di Ginevra e Berna (1921 e 1923),
quelle dell’Onu (1949 e 1950), il protocollo della convenzione di Palermo
(2000), e una serie di dichiarazioni, direttive e risoluzioni dell’UE (dal 2002
al 2010). Lo “strabismo” dei vari Governi italiani sul tema era già stato
oggetto di una “nota di biasimo” (giugno 2011) da un cartello di ben 83
associazioni e Ong in ambito europeo. Quello che manca(va) è la presenza di
un’autorità transnazionale in grado di far rispettare le tante sollecitazioni e
regole in tema di tratta delle persone e protezione delle vittime. L’Unchr è
sicuramente un’importante agenzia dell’Onu ma non ha veri e propri poteri
esecutivi ed è sostenuta finanziariamente da pochi paesi “donatori volontari”
che, per giunta, hanno mostrato evidenti segni di stanchezza nelle donazioni.Un’autorità politica europea (anche mondiale) dovrebbe poter assicurare alcune funzioni essenziali ( in questo senso le indicazioni espresse in più circostanze del Professore Stefano Zamagni, Ordinario di Economia Politica presso l’Università di Bologna), tra cui quella di realizzare un quadro statistico-informativo credibile sul fenomeno delle migrazioni per consentire serie e coerenti politiche di interventi ed evitare, così, speculazioni politiche che servono solo a creare paura tra la gente e di far adottare politiche migratorie omogenee e coerenti in una stessa regione geografica ponendosi come arbitro in caso di controversie.
Suggerimenti, dunque, interessanti e razionali che, però, trovano resistenze in alcuni partiti e movimenti politici, anche in ambito Unione Europea, perché, su questi temi, c’è il rischio serio di perdere consenso elettorale. E nessuno, allo stato, con l’aria che tira e con le elezioni europee alle porte, vuole il suicidio politico.
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