L’ultimogenita
di Salvatore e Ninetta Bagarella si racconta. La sua infanzia in clandestinità,
nelle campagne palermitane, e l’arrivo a Corleone
dopo la cattura del padre, il 15 gennaio 1993. L’impatto
con la società e oggi il desiderio di esprimersi attraverso l’arte. L'appuntamento
è alle 12, all’entrata
del paese. Ogni chilometro rappresenta metri di riflessioni e punti
interrogativi. Come sarà dal vivo Lucia Riina? In fondo la sua persona ha
sempre vissuto mediaticamente all’ombra del padre
Salvatore, di mamma Antonietta e dei fratelli Salvo, Maria Concetta e Gianni.
Il cartello «Corleone»
indica che non è più tempo di pensare. «Benvenuti nella mia
città, vista l’ora
che ne dite di fare un salto in pescheria? Qui si trova dell’ottimo
pesce».
Così esordisce la più piccola di casa Riina in jeans e t-shirt nera. Da lì a
poco, eccoci nella cucina decorata con maioliche blu e bianche e due chili di
polipi da preparare.
Mentre in pentola il pesce cuoce insieme con il pomodoro
fresco fatto da mamma Ninetta, Lucia chiarisce la provenienza dei suoi occhi
azzurri. «Il
colore è tipico dei Riina» spiega con in mano un mestolo di legno «quelli
di mio padre sono cangianti tra il marrone e il verde, anche se il taglio
appartiene alla famiglia Bagarella. Da piccola ero molto magra e mamma a
colazione mi dava le vitamine alla ciliegia. Ormai, da quando vivo in campagna,
sono le uova della mia fattoria a darmi energia». E
in realtà, ad animare le giornate di Lucia e del marito Vincenzo, alle prese
con il lavoro a singhiozzo, ci pensano cani, gatti, oche e galline.
Sul
suo sito si legge: «Sin da quando ero bambina ho avuto la
passione per il disegno, ricordo che mamma e papà cercavano di procurarmi
sempre album e matite ovunque eravamo. Io ero piccola e non capivo, però mi
entusiasmava l’idea
che a ogni nuova residenza c’erano ad attendermi
matite e album nuovi».
Che
ricordo ha della sua infanzia?
Ho
un ricordo di gioia e serenità. Si respirava amore puro in casa, sembrava di
vivere dentro a una fiaba: mamma mi accudiva, papà mi adorava e mia sorella
Mari per farmi addormentare mi raccontava le favole accarezzandomi i capelli.
Mio fratello Gianni mi metteva sulle sue gambe chiamandomi “pesciolino”,
Salvo (col quale la differenza di età è di appena tre anni, ndr) era il
compagno di giochi. Avevamo un cane e un gatto, per questo adoro gli animali.
Si
respirava profumo di arte?
Mamma
ha conseguito il diploma magistrale, quindi ci parlava spesso di storia dell’arte
e di letteratura, papà era un appassionato di libri, e trascorreva le sue
serate a leggere volumi sulla storia della Sicilia. Credo di avere, comunque,
ereditato l’amore
per la pittura dallo zio Leoluca (Bagarella, ndr), il fratello di mia madre. In
casa custodisco gelosamente alcuni suoi dipinti, regali delle zie per il mio
matrimonio: sapevano che anche dal carcere lo zio avrebbe apprezzato il gesto.
Da
piccola si dilettava a disegnare pesci e farfalle, adesso questi soggetti sono
diventati i protagonisti delle sue tavole.
Rappresentano
un po’ il
mio carattere. Il pesce con la sua serenità e i suoi colori cangianti, la
farfalla con la sua libertà e delicatezza. Da bambina li disegnavo per
esprimere i miei stati d’animo, adesso per
rievocare il mio passato e comunicare il fatto di essere innamorata. Se dovessi
rappresentare la mia esistenza attraverso i colori utilizzerei il rosa e il
celeste, ma anche il giallo, il rosso e l’arancio perché mi
ritengo una persona ottimista. La vita va affrontata con coraggio e anche
quando si presentano situazioni difficili bisogna sempre andare avanti.
C’è qualcosa
che le manca per completare il quadro della sua serenità?
La
mia è stata sicuramente una vita articolata e piena di difficoltà. È traumatico
per una bambina di 12 anni vedersi strappare, dall’oggi
al domani, la persona che più adora senza conoscerne i motivi e senza potergli
dare nemmeno un ultimo bacio. I mesi dopo l’arresto
di papà sono stati durissimi: l’arrivo a Corleone
cercando di ambientarsi in una nuova realtà, frequentare la scuola (eravamo
infatti abituati alla mamma che tutti i giorni ci riuniva a un tavolo
impartendoci lezioni personalizzate), l’impatto con la
società. A questo aggiuntete le visite in carcere. Non riesco ancora a
dimenticare la prima, dopo il periodo di isolamento di papà a Rebibbia: fu atroce,
anzi peggio. Inizialmente credo che la struttura non fosse organizzata ad
accogliere papà, e nemmeno noi, durante i colloqui. Ricordo che fecero entrare
me, i miei fratelli e la mamma in una stanza piena di sedie e con un paravento
dotato di fori. Mio padre era a pochi centimetri da noi, l’avrei
potuto abbracciare in un istante, ma le guardie erano tutte attorno a lui e ci
imploravano di non alzarci. Abbiamo passato tutto il tempo a piangere. Certe
atrocità ai bambini non si fanno. Per chi non mi conosce e si basa solo sulle
polemiche sollevate dai media negli anni, Lucia Riina non è quella bambina che
si è risvegliata violentemente da una fiaba e non è nemmeno la donna che oggi
fa fatica, come tutti i giovani, a trovare un’occupazione
complice la crisi economica e un cognome forse un po’ ingombrante.
Per me l’arte
diventa un modo per rappresentare il mio mondo e far conoscere agli altri
realmente chi sono.
Nel
suo sito afferma di non aver potuto frequentare il liceo artistico di Palermo «perché
a quell’età
e in quella situazione non potevo andare a studiare così lontano da casa». C’è un
artista da cui ha tratto spunti creativi?
L’ispirazione
nasce dalla vita di tutti i giorni, dal luogo in cui vivo e dal fatto che sto
bene con mio marito. Negli ultimi mesi sto studiando le correnti dell’astrattismo
basate sugli stati d’animo espressi attraverso i colori, le
pennellate e le forme indefinite. Inoltre, sono attratta da Jackson Pollock e
dalla tecnica del dripping: mi piacerebbe reinterpretarla personalizzandola.
Oltre
alla pittura avrebbe voluto coltivare altre passioni?
Sicuramente
la danza. Da piccola guardavo tutti i film del genere, mi mettevo davanti allo
specchio e ballavo o improvvisavo coreografie davanti ai miei genitori. Ancora
oggi rimango incantata dalla danza classica e se un giorno dovessi avere una
bimba mi piacerebbe vederla in tutù e calzamaglia.
Che
cosa pensa di avere ereditato dai suoi genitori?
Da
papà, sicuramente, la gioia di vivere e l’ottimismo.
Il fatto di andare sempre avanti senza arrendersi. Con lui c’è sempre
stato un feeling speciale, complice anche il fatto di essere la più piccola in
famiglia. Nelle lettere che mi spedisce mi chiama ancora «Lucietta
di papà» nonostante i miei 33 anni suonati. Anche dal carcere, in questi anni,
ha cercato spesso di ammorbidire mamma per le classiche richieste che una
figlia adolescente fa ai propri genitori. Mi riferisco all’orario
di rientro il sabato sera o al permesso per andare al mare. Quando conobbi
Vincenzo, mio fratello Salvo inizialmente era un po’ geloso
così ne parlai durante un colloquio a papà, che rispose: «Se
la mia Lucietta è contenta, fatele fare le sue scelte».
Da mamma credo
di
aver ereditato l’amore
per gli affetti e per la conoscenza che mi ha spronato sempre a interagire con
nuove persone.
In
questi anni sua madre ha avuto un ruolo importante in famiglia. È stata
moglie, madre e dal 1993 ha dovuto pure sopperire all’assenza
fisica di suo padre. Adesso i ruoli si sono un po’ invertiti:
è un po’ Lucia
a dover sostenere Antonietta?
Crescendo,
un figlio diventa un punto di forza per un genitore. Ci sono momenti in cui
fare i conti con la mancanza di papà per mia madre diventa difficile. Il loro
è stato un amore da romanzo: lei ha lasciato tutto per dedicarsi anima e corpo
a noi figli e al grande amore della sua vita. Tutte le volte che è giù perché
pensa a papà o a Gianni che è in carcere le dico: «Mamma,
stai tranquilla, io sarò sempre accanto a te». È
il minimo che puoi fare per chi ti dà la vita.
Lei
aveva deciso di devolvere a Save the children il 5 per cento del ricavato della
vendita dei suoi dipinti, ma la sua scelta ha causato polemiche.
Da
anni seguivo le iniziative di questa associazione, così visitando la loro
pagina ufficiale su internet venni a conoscenza del fatto che chiunque, munito
di sito, poteva inserire il banner di Save the children per contribuire alle
iniziative a favore dell’infanzia. Così,
venduti i primi quadri, ho inviato una parte del compenso con un bollettino
postale, cui seguì una lettera di ringraziamento intestata a me da parte dell’associazione
con tanto di tessera di socio e una esortazione a continuare a contribuire. Io
ero felicissima di poter aiutare bambini sfortunati e tutto mi sarei aspettata
tranne che, da lì a poco, Save the children potesse reagire in quel modo. Ci
sono rimasta malissimo, ho tolto il banner spiegando sul sito come sono andate
le cose perché voglio essere trasparente con chi mi segue. Il mio è un lavoro
onesto e da sempre il mondo dell’arte è legato alla
beneficenza. Adesso sono alla ricerca di una nuova associazione da sostenere,
perché mi sento realizzata quando faccio del bene.
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