Pippo Fava |
Il ricordo del figlio Claudio: «Denunciava un’Italia corrotta. La notte degli spari cambiò il mio sguardo
sul mondo. La seconda notte fu la peggiore».
La prima
notte passa in fretta, travolta dall’emozione. La seconda no. «Capisci che
è cambiato tutto, che è volata via l’innocenza. Conosci il vuoto ma ancora non
sai che non potrai mai riempirlo. La seconda notte non finisce: ti resta
addosso pertutta
la vita, come un debito che non puoi saldare». Quello di Claudio Fava è un debito
dello Stato intero verso un cittadino tenace e onesto, che denunciava un Paese
corrotto e mafioso, e ne sperava uno pulito e migliore: il 5 gennaio di
trent’anni fa spararono cinque colpi alla nuca di Giuseppe “Pippo” Fava, il
padre di Claudio.
Un giornalista, un po’ di più: uno che scriveva. La sua ultima creatura
editoriale - in una carriera mossa, curiosa, importante - era un mensile, I
Siciliani, da lui fondato e diretto, nel quale radunò un gruppo di
giovanotti, c’era anche Claudio che già masticava il mestiere. «Era una
stagione digrande intensità,
passione, allegria. Nonostante la fatica per stampare e la cupezza intorno. Ci
attraversava l’incoscienza di sentirsi immortali, come se la sfida a un nemico
così enorme ci potesse rendere immuni».
Poi arrivarono gli sparì, la notizia.
«Scoprimmo - tutti - di aver perso l’immortalità. E ci rimase addosso questo debito eterno con la nostra vita, con la nostra terra».
Questa tragica consapevolezza diventò Un rimorso?
«Diventò una ricerca: dei messaggi appena accennati, degli sguardi ostili sul lavoro, sul giornale. Un alfabeto muto, fatto di segnali minimi come si conviene alla malavita. Avremmo dovuto decifrarli. Poi ci furono azioni più dirette e chiare, ma non ci spaventarono. Ci eravamo illusi che i nostri avversari erano inibiti dalla reazione popolare contro un loro possibile gesto enorme: fu un calcolo ingenuo. Ma la verità è che non sarebbe cambiato nulla. Mio padre non avrebbe snaturato una virgola del suo istinto».
Quali messaggi e azioni le tornarono in mente?
«Ricordo le proposte di lavoro (lusinghiere) per smobilitare l’avventura de I Siciliani. Ricordo soprattutto la lettera del banco di Sicilia, la più grande del Mezzogiorno, con la quale ci rifiutava 250mila lire di pubblicità, nonostante fossimo il mensile più diffuso dell’area. Non era solo avversione editoriale: era un netto avviso di un patto fra la finanza, l’economia, la politica. Si svuotavano i forzieri per concedere fidi ai Cavalieri del Lavoro, e non c’era una lira per noi che denunciavamo la corruzione e la prossimità alla mafia di quegli stessi padroni».
Gli imprenditori dell’edilizia catanese, «i Quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa»: così li descrisse suo padre.
«Già il prefetto Dalla Chiesa ne inquadrò il ruolo centrale nella mafia siciliana. I quattro Cavalieri raccontati nell’articolo di mio padre erano una categoria dello spirito e anche una metafora perfetta sul punto d’incontro fra una certa economia, una certa politica e Cosa Nostra. La sintesi perfetta e miserabile della metastasi che divorava la Sicilia».
Che giornalista era Pippo Fava?
«La scrittura era una forma di esistere, un istinto vitale, la notizia striminzita poteva diventare una affresco civile capace di raccontare una Nazione, senza retorica e senza debordare dal solco del fatto. Era moderno nel tentativo di mescolare gli stili e i generi, con forze e sregolatezza: il giornalismo, il racconto, la drammaturgia. Il suo sguardo si nutriva di forme e linguaggi diversi che poi componevano il quadro. In quel quadro, i fatti respiravano, vivevano».
Cosa significa avere un padre in redazione?
«Accettare che dentro quella stanza il rapporto poteva e doveva evolvere: complice, vivace, condiviso fuori. Rigoroso e pedagogico dentro, una distinzione che metteva al riparo il nostro rapporto privato, umano. Quando spiegava il mestiere a un gruppo di ragazzi,con me era più duro: lo capivo, lo approvavo. A 23 anni mi ritrovai alla cronaca nera, a scrivere ogni sera di due morti ammazzati. Non c’era protezione, e io non dovevo “bucare” una notizia, una pista, una voce».
Una sera di gennaio vi salutate sul portone della redazione. Lui deve andare dalla nipotina Francesca che recitava in teatro: faceva la parte del bambino muto in Pensaci, Giacomino!.
«Quando rincaso è già accaduto. Un parente mi aspetta: ha visto la macchina, la gente, il corpo. Ero diventato padre da venti giorni, mi affacciavo alla vita con una percezione ridotta, forse superficiale. Gli spari cambiarono tutto: il mio sguardo sul mondo, il mio modo di essere padre. Come se fosse stato strappato un velo che per anni aveva protetto la realtà. Ero preoccupato che mia figlia crescesse in una terra meno vinta, disperata, schiava».
Poi la seconda notte, la terza,la millesima.
«Fu peggiore dell’assassinio: misurare Giorno dopo giorno l’impunità civile e culturale, così sfacciata negli articoli con il punto interrogativo, negli esami dei nostri conti correnti, in quella frase, del procuratore: «Indaghiamo a 360°», un esemplare commiato da un’inchiesta seria, che aveva una sola, logica, direzione. Dovevamo difendere la memoria di mio padre dalla viltà e dalla miseria dei vivi».
Di Pippo dicono: intransigente, serio.
«Posso aggiungere molto, mi aiuto con Un fatto: la scelta di una redazione di ventenni è di chi voleva mettersi in gioco, rinunciando alle sicurezze professionali, aprendosi alla nostra schietta e fresca imprudenza. Queste scelte descrivono un carattere. Loro credevano di aver ucciso anche il giornale. Stringemmo la cinghia, con lucidità e fatica lavorammo altri quattro anni. Ricordo le prime due righe dell’editoriale del numero dopo l’omicidio: «Ci scusiamo per arrivare in edicola con tre giorni di ritardo per cause che non sono dipese da noi». Fu una pagina “alta”: non lasciammo nessuna soddisfazione agli assassini,nessun riconoscimento. Non è stato tempo perduto, Pippo sarebbe fiero della sua squadra».
Voi due.
«Alzo la testa e lo vedo sulle gradinate. Io sono in acqua, per i noiosissimi allenamenti di pallanuoto. Stava lì, magari con il brogliaccio in mano per correggere un articolo o finire una sceneggiatura... Ma c’era questo tempo nostro, un sentimento elementare, bello nella sua semplicità, la proiezione sul figlio di un immaginario vasto. Un tempo guadagnato. Ho una vita frenetica, fitta di impegni, ma ci sono anche io, sulle tribune, per gli allenamenti dei miei figli. Loro alzano la testa e mi guardano: è un flusso di solidarietà e di dolore che non ha mai avuto bisogno di parole. Sanno di cosa siamo figli, tutti noi familiari dei morti di mafia. Facciamo parte di una grande storia umana perché i nostri morti non sono“privati”, sono morti di tutti perché sono stati vivi di tutti».
Se fosse qui, di cosa parlereste?
«Del Paese che è cambiato, ma è rimasto simile a se stesso. Ha imparato a mentire con più stile, a travestire con garbo e sobrietà certe violenze. È un Paese meno rumoroso e sfacciato, ma non troppo migliore: non gli piacerebbe granché. Lo scaverebbe dentro per ricostruirlo fuori. Si darebbe da fare, il giornalista».
Poi arrivarono gli sparì, la notizia.
«Scoprimmo - tutti - di aver perso l’immortalità. E ci rimase addosso questo debito eterno con la nostra vita, con la nostra terra».
Questa tragica consapevolezza diventò Un rimorso?
«Diventò una ricerca: dei messaggi appena accennati, degli sguardi ostili sul lavoro, sul giornale. Un alfabeto muto, fatto di segnali minimi come si conviene alla malavita. Avremmo dovuto decifrarli. Poi ci furono azioni più dirette e chiare, ma non ci spaventarono. Ci eravamo illusi che i nostri avversari erano inibiti dalla reazione popolare contro un loro possibile gesto enorme: fu un calcolo ingenuo. Ma la verità è che non sarebbe cambiato nulla. Mio padre non avrebbe snaturato una virgola del suo istinto».
Quali messaggi e azioni le tornarono in mente?
«Ricordo le proposte di lavoro (lusinghiere) per smobilitare l’avventura de I Siciliani. Ricordo soprattutto la lettera del banco di Sicilia, la più grande del Mezzogiorno, con la quale ci rifiutava 250mila lire di pubblicità, nonostante fossimo il mensile più diffuso dell’area. Non era solo avversione editoriale: era un netto avviso di un patto fra la finanza, l’economia, la politica. Si svuotavano i forzieri per concedere fidi ai Cavalieri del Lavoro, e non c’era una lira per noi che denunciavamo la corruzione e la prossimità alla mafia di quegli stessi padroni».
Gli imprenditori dell’edilizia catanese, «i Quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa»: così li descrisse suo padre.
«Già il prefetto Dalla Chiesa ne inquadrò il ruolo centrale nella mafia siciliana. I quattro Cavalieri raccontati nell’articolo di mio padre erano una categoria dello spirito e anche una metafora perfetta sul punto d’incontro fra una certa economia, una certa politica e Cosa Nostra. La sintesi perfetta e miserabile della metastasi che divorava la Sicilia».
Che giornalista era Pippo Fava?
«La scrittura era una forma di esistere, un istinto vitale, la notizia striminzita poteva diventare una affresco civile capace di raccontare una Nazione, senza retorica e senza debordare dal solco del fatto. Era moderno nel tentativo di mescolare gli stili e i generi, con forze e sregolatezza: il giornalismo, il racconto, la drammaturgia. Il suo sguardo si nutriva di forme e linguaggi diversi che poi componevano il quadro. In quel quadro, i fatti respiravano, vivevano».
Cosa significa avere un padre in redazione?
«Accettare che dentro quella stanza il rapporto poteva e doveva evolvere: complice, vivace, condiviso fuori. Rigoroso e pedagogico dentro, una distinzione che metteva al riparo il nostro rapporto privato, umano. Quando spiegava il mestiere a un gruppo di ragazzi,con me era più duro: lo capivo, lo approvavo. A 23 anni mi ritrovai alla cronaca nera, a scrivere ogni sera di due morti ammazzati. Non c’era protezione, e io non dovevo “bucare” una notizia, una pista, una voce».
Una sera di gennaio vi salutate sul portone della redazione. Lui deve andare dalla nipotina Francesca che recitava in teatro: faceva la parte del bambino muto in Pensaci, Giacomino!.
«Quando rincaso è già accaduto. Un parente mi aspetta: ha visto la macchina, la gente, il corpo. Ero diventato padre da venti giorni, mi affacciavo alla vita con una percezione ridotta, forse superficiale. Gli spari cambiarono tutto: il mio sguardo sul mondo, il mio modo di essere padre. Come se fosse stato strappato un velo che per anni aveva protetto la realtà. Ero preoccupato che mia figlia crescesse in una terra meno vinta, disperata, schiava».
Poi la seconda notte, la terza,la millesima.
«Fu peggiore dell’assassinio: misurare Giorno dopo giorno l’impunità civile e culturale, così sfacciata negli articoli con il punto interrogativo, negli esami dei nostri conti correnti, in quella frase, del procuratore: «Indaghiamo a 360°», un esemplare commiato da un’inchiesta seria, che aveva una sola, logica, direzione. Dovevamo difendere la memoria di mio padre dalla viltà e dalla miseria dei vivi».
Di Pippo dicono: intransigente, serio.
«Posso aggiungere molto, mi aiuto con Un fatto: la scelta di una redazione di ventenni è di chi voleva mettersi in gioco, rinunciando alle sicurezze professionali, aprendosi alla nostra schietta e fresca imprudenza. Queste scelte descrivono un carattere. Loro credevano di aver ucciso anche il giornale. Stringemmo la cinghia, con lucidità e fatica lavorammo altri quattro anni. Ricordo le prime due righe dell’editoriale del numero dopo l’omicidio: «Ci scusiamo per arrivare in edicola con tre giorni di ritardo per cause che non sono dipese da noi». Fu una pagina “alta”: non lasciammo nessuna soddisfazione agli assassini,nessun riconoscimento. Non è stato tempo perduto, Pippo sarebbe fiero della sua squadra».
Voi due.
«Alzo la testa e lo vedo sulle gradinate. Io sono in acqua, per i noiosissimi allenamenti di pallanuoto. Stava lì, magari con il brogliaccio in mano per correggere un articolo o finire una sceneggiatura... Ma c’era questo tempo nostro, un sentimento elementare, bello nella sua semplicità, la proiezione sul figlio di un immaginario vasto. Un tempo guadagnato. Ho una vita frenetica, fitta di impegni, ma ci sono anche io, sulle tribune, per gli allenamenti dei miei figli. Loro alzano la testa e mi guardano: è un flusso di solidarietà e di dolore che non ha mai avuto bisogno di parole. Sanno di cosa siamo figli, tutti noi familiari dei morti di mafia. Facciamo parte di una grande storia umana perché i nostri morti non sono“privati”, sono morti di tutti perché sono stati vivi di tutti».
Se fosse qui, di cosa parlereste?
«Del Paese che è cambiato, ma è rimasto simile a se stesso. Ha imparato a mentire con più stile, a travestire con garbo e sobrietà certe violenze. È un Paese meno rumoroso e sfacciato, ma non troppo migliore: non gli piacerebbe granché. Lo scaverebbe dentro per ricostruirlo fuori. Si darebbe da fare, il giornalista».
L'Unità, 4 gennaio 2014
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