di GIUSEPPE CARLO MARINO
L’odierna agitazione delle piazze italiane lascia sperare che questo “popolo” (così ama dirsi la folla eterogenea che da vari canali va affluendo allo scenario di una grande protesta) sia finalmente deciso a …marciare, per non… marcire. Ma dove va? Qual è la meta del suo agitato movimento ? “A Roma”, si promette adesso da Torino: a Roma, dunque, per assediare un Parlamento “ illegittimo” che, a dire il vero, è delegittimato soprattutto dall’infima qualità morale e culturale dei suoi membri, ben più che dalla recente sentenza di un Corte costituzionale anch’essa illegittima e delegittimata.
Nel tumulto, non pochi gridano alla “rivoluzione”, anche se i più, se interrogati sul tema, non riuscirebbero ad altro che a reiterare l’urlo “Via i politici, tutti i politici”, “Tutti a casa, subito!” Non pensano che, una volta cacciati tutti i politici di oggi, dovrebbero poi fare i conti con i politici di domani, che magari per “far politica contro la politica” inevitabilmente andrebbero alla scuola dei Grillo e della Santachè, e si contenderebbero le idee e i valori del “bene pubblico” che già appartengono a personaggi quali Casaleggio, Alfano, Renzi e… Marina Berlusconi. Altre idee e altri “valori” non li vedo in giro, a parte quelli di un’élite di semidisperati che tenta di far capire che non ci si salva dalle condanne all’impoverimento di massa, alla miseria di massa, alla corruzione di massa, alla “schiavizzazione” di massa, all’imbecillimento di massa, senza abbattere l’attuale sistema capitalistico che non soltanto è oggi il sistema-mondo dominato e diretto da una non troppo occulta leadership finanziario-mafiosa, ma è entrato nella testa della gente come l’unico sistema possibile (e persino come l’unico, alla fin fine, desiderabile). Quelli che capiscono, dal 1989 ad oggi, sono diventati sempre meno numerosi. Ed oggi resistono appena, in affanno.
Non credo affatto che l’odierna movimentazione di protesta (per quanto ben comprensibile e condivisibile nelle sue cause e motivazioni) sia qualcosa appena avvicinabile a un autentico movimento di massa per la “rivoluzione”, a meno che per “rivoluzione” non si intenda la “rivolta” (parola sempre cara, anzi carissima, ai fascisti che infatti la stanno utilizzando anche in questi giorni!) la cui sorte inevitabile è alla fine soltanto quel che Antonio Gramsci chiamava “rivoluzione passiva” ovvero quel “cambiare tutto per non cambiare” di cui aveva piena coscienza il principe di Lampedusa scrivendo il suo “Gattopardo”. Marciare per non marcire senza sapere dove andare e perché andare (senza un progetto condiviso al di là del far rumore, senza strategia, senza capi e senza cultura politica e persino, spesso, senza cultura tout court) è sempre meglio che la rassegnazione nella palude della quotidiana disperazione. E’ segno di una risorgente vitalità. Al limite, potrebbe persino evocare un alcunché di “eroico” per i nostalgici di qualche antico e romantico libertarismo, di anarchici e libertari, contro tutti i simboli e palazzi del potere. Epperò, oltre che disordinato, nel suo rifiuto del “principe”, è un marciare che rischia di non andare da nessuna parte o di cadere in un precipizio nel quale, per trarsene poi fuori, si diventa vittime di qualche demagogo, di qualche principe-tiranno o, peggio, di qualche Masaniello.
Nel tumulto, non pochi gridano alla “rivoluzione”, anche se i più, se interrogati sul tema, non riuscirebbero ad altro che a reiterare l’urlo “Via i politici, tutti i politici”, “Tutti a casa, subito!” Non pensano che, una volta cacciati tutti i politici di oggi, dovrebbero poi fare i conti con i politici di domani, che magari per “far politica contro la politica” inevitabilmente andrebbero alla scuola dei Grillo e della Santachè, e si contenderebbero le idee e i valori del “bene pubblico” che già appartengono a personaggi quali Casaleggio, Alfano, Renzi e… Marina Berlusconi. Altre idee e altri “valori” non li vedo in giro, a parte quelli di un’élite di semidisperati che tenta di far capire che non ci si salva dalle condanne all’impoverimento di massa, alla miseria di massa, alla corruzione di massa, alla “schiavizzazione” di massa, all’imbecillimento di massa, senza abbattere l’attuale sistema capitalistico che non soltanto è oggi il sistema-mondo dominato e diretto da una non troppo occulta leadership finanziario-mafiosa, ma è entrato nella testa della gente come l’unico sistema possibile (e persino come l’unico, alla fin fine, desiderabile). Quelli che capiscono, dal 1989 ad oggi, sono diventati sempre meno numerosi. Ed oggi resistono appena, in affanno.
Non credo affatto che l’odierna movimentazione di protesta (per quanto ben comprensibile e condivisibile nelle sue cause e motivazioni) sia qualcosa appena avvicinabile a un autentico movimento di massa per la “rivoluzione”, a meno che per “rivoluzione” non si intenda la “rivolta” (parola sempre cara, anzi carissima, ai fascisti che infatti la stanno utilizzando anche in questi giorni!) la cui sorte inevitabile è alla fine soltanto quel che Antonio Gramsci chiamava “rivoluzione passiva” ovvero quel “cambiare tutto per non cambiare” di cui aveva piena coscienza il principe di Lampedusa scrivendo il suo “Gattopardo”. Marciare per non marcire senza sapere dove andare e perché andare (senza un progetto condiviso al di là del far rumore, senza strategia, senza capi e senza cultura politica e persino, spesso, senza cultura tout court) è sempre meglio che la rassegnazione nella palude della quotidiana disperazione. E’ segno di una risorgente vitalità. Al limite, potrebbe persino evocare un alcunché di “eroico” per i nostalgici di qualche antico e romantico libertarismo, di anarchici e libertari, contro tutti i simboli e palazzi del potere. Epperò, oltre che disordinato, nel suo rifiuto del “principe”, è un marciare che rischia di non andare da nessuna parte o di cadere in un precipizio nel quale, per trarsene poi fuori, si diventa vittime di qualche demagogo, di qualche principe-tiranno o, peggio, di qualche Masaniello.
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