L'arresto di Giovanni Brusca |
di Salvatore
Parlagreco
Il processo
sulla trattativa Stato-mafia ha questo di buono, regala un ripasso di storia dellaSicilia che il tempo ha smagnetizzato come succede
alle ricevute del bancomat. Chi vuole, perciò, ha la possibilità, unica, di
rimettere insieme i pezzi e ricostruire il calvario, chi preferisce lasciarsi
alle spalle tutto e vivere alla giornata, è costretto a prendere atto di ciò
che fu e, forse, c’è ancora. Un merito, dunque. Ma sempre di ripasso si tratta,
ed il fatto che l’escussione dei testi metta insieme i pezzi non significa che
ci serva la verità, processuale, su un piatto d’argento, o che le cose dette e ripetute guadagnino strada facendo
carisma.
Mettiamo il
caso di Giovanni Brusca, l’assassino del ragazzino ammazzato perché figlio di
suo padre (collaboratore di giustizia). Chiamato sul banco dei
testimoni nel processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo, ha
ricordato che Cosa nostra cercava un referente per gestire in proprio la
politica e le istituzioni. Voleva fare, insomma, un partito.
Le idee dei
boss, all’inizio degli anni Novanta, invero non erano chiare. Le stavano mutando in fretta, Cosa Nostra non serviva più ai potenti del tempo dopo
la caduta del muro di Berlino, e in Italia, di
conseguenza, la fazzolettata di amici fratelli soci alleati e consigliori se
l’era squagliata o era caduta in disgrazia.
Avendo
perciò idee confuse – era stato individuato il
bisogno, ma non lo strumento per soddisfarlo - qualcuno suggerì di fare un
partito siciliano indipendentista, qualche altro un partito meridionale un poco
scissionista e qualche altro ancora, un partito nazionale perché
alla fin fine l’importante era che ci fosse nel Palazzo un personaggio con cui
discutere di affari.
Gaspare
Spatuzza, com’è noto, ha raccontato che uno dei fratelli Graviano, boss
emergente di Palermo, era felice come una rosa, avendo ricevuto garanzie che tutto sarebbe tornato come prima. Ma in
quelle giornate difficili c’era chi dal carcere trattava, pare, con uomini
delle istituzioni sul 41 bis, servendosi di mediatori illustri.
E le cose eramno così avanti che sarebbe stato preparato una specie di
contratto, chiamato papello, per patteggiare l’addio alle armi dei boss allora impegnati a maneggiare il tritolo
con destrezza. Lo Stato avrebbe dovuto allentare le briglia sul
41 bis, e i picciotti avrebbero rimesso a loro volta la dinamite nel fodero.
Giovanni
Brusca si era mosso nella palude siciliana, mentre Graviano viaggiava nei piani
alti.Incaricato di cercare l’uomo giusto per fare il
partito siciliano – un deputato regionale di origini repubblicane, poi
diventato socialdemocratico e quindi qualcos’altro – s’era dovuto tirare
indietro. La missione non andò in porto perché sbagliarono persona, il
parlamentare designato aveva il vizio di non mantenersi sobrio e non era pertanto
cosa per la quale.
I Graviano,
a sentire Spatuzza, invece abitavano un altro pianeta, la Milano da bere, che non ha niente a che fare con
il deputatino siciliano che alza il gomito. E’ infatti la Milano di Vittorio
Mangano, installato ad Arcore per proteggere Silvio Berlusconi dagli agguati
della mafia, e di tanti altri personaggi assai in vista nel mondo della
finanzia, dell’edilizia ecc. La Milano di Marcello Dell’Utri, che sarebbe stato
poi infamato da tanti pentiti in cerca di benemerenze. Berlusconi e Dell’Utri,
gente per bene, che da lì a qualche mese, avrebbe costruito in pochi giorni il
partito che non c’era, strabiliando il mondo intero, che manco Beppe Grillo
avrebbe saputo fare la stessa cosa. Avrebbero trasformato Pubblitalia in Forza
Italia e conquistato il Palazzo.
Tutto il
resto lo sapete a memoria. Torniamo al processo sulla trattativa, al ripasso di
storia ed a Giovanni Brusca, che ci regala alcune pagine preziose. Il
collaboratore ha sì raccontato il suo, ricordando la missione ricevuta dai
capi, ripetendo quanto il capodecina Leonardo Messina aveva
svelato ai magistrati e alla commissione antimafia preceduta da Luciano
Violante. Della qualcosa non c’è affato da meravigliarsi, non toglie niente ai
meriti di Brusca. Anche quelli meglio di lui, Tommaso Buscetta per esempio,
raccontato per filo e per segno ciò che rivela prima di lui Leonardo Vitale,
fuori di testa, a poliziotti e magistrati. Con i pentiti di mafia queste cose
succedono, è come la letteratura: nessuno racconta niente di nuovo, perché
tutto è già stato scritto. Si tratta semmai di rileggerlo con gli occhi dei
tempi nuovi.
Leonardo
Messina, nel dicembre del 92, riferisce del partito nuovo, partendo da lontano: racconta alla Commissione
antimafia che ad uccidere il bandito Giuliano è stato Luciano Liggio, lasciando
a bocca aperta tutti, come ha fatto Brusca svelando la voglia di partito delle cosche. Liggio lo avrebbe
regalato allo Stato per rispettare la volontà del capo dei capi, Calogero
Vizzini. “Ci fu un compromesso fra un’ala dello Stato e Cosa nostra”, spiega
Messina. “Ora ci sarà un nuovo compromesso con chi rappresenta il nuovo Stato”.
“Si è mai
vista una zecca che vuole diventare cane?”, commentò l’avvocato Traina,
difensore di Luciano Liggio. Un partito siciliano, separatista, come al tempo
di Michele Sindona – era davvero questo l’intento? – si chiesero in tanti.
Traina è scettico: “Nel dopoguerra il separatismo siciliano rispondeva a
qualche oscuro progetto atlantico, ma adesso? Cosa Nostra una sua Colombia è
riuscita a crearsela, la mafia è un parassita”, ragionava Traina.
Aveva
ragione lui o Nardo Messina?
Cosa nostra,
questo è indubbio, la sua Colombia ce l’ha avuta: in Sicilia hanno ammazzato nel
breve lasso di tempo il capo del governo, il capo dell’opposizione, il prefetto
di Palermo, il segretario del partito più importante, e magistrati, alti
ufficiali dei carabinieri. Nessuno che fosse sfiorato dall’idea che nell’Isola
il colpo di stato, in ambito regionale, l’avevano fatto. Perciò forse hanno
ragione entrambi, Traina e Messina, perché c’è un tempo per tutte le cose: un
tempo per la trattiva, un tempo per la guerra. E per i ripassi di storia.
Da
SiciliaInformazioni.com, 27 dicembre 2013
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