Leonardo Sciascia tiene un comizio pubblico per il PCI a Corleone nella campagna elettorale del 1976 |
ALCUNE COSE
SUL RAPPORTO TRA LEONARDO SCIASCIA E IL PCI
di Agostino
Spataro
(Questa
foto- pubblicata da Dino Paternostro su FB- e alcune disinvolte interpretazioni
del rapporto tra il PCI e Leonardo Sciascia mii hanno indotto a riproporre
questa nota, scritta in occasione del 20° anniversario della scomparsa dello
scrittore, che vuole essere solo un modesto contributo per una ricostruzione
più autentica di tale complesso rapporto)
1. Il 20° anniversario della morte di
Leonardo Sciascia rischia di passare quasi inosservato. Il 2009 doveva essere
l’anno sciasciano,specie in Sicilia. La visita del presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, alla tomba dello scrittore, a Racalmuto, lasciava ben
sperare. Purtroppo, così non è stato per ragioni che ai più restano ignote. Anche
per novembre, il mese della ricorrenza, non si annunciano eventi importanti. Questo
passa il convento, anzi il governo. C’è da sperare che qualcuno non pensi di
scaricarne la colpa sulla concomitanza con un altro, memorabile ventennale:
quello del crollo del muro di Berlino che ricorre 11 giorni prima della morte
di Sciascia. Sarebbe come prendersela con la morte, beffarda e irriverente, che
si è preso lo scrittore a 68 anni e, per giunta, pochi giorni dopo lo storico
crollo. D’altra parte, nessuno può decidere né quando nascere né quando, e
come, morire. Solo ai suicidi è concesso il secondo, tremendo “privilegio”.
2. Ma lasciamo questo infausto
preambolo e andiamo ad alcune cose, che ancora ricordo, riguardanti il rapporto
di Leonardo Sciascia con il Pci che, prima del partito radicale, fu per lui la
forza politica di riferimento. Con questo partito, specie a livello siciliano,
lo scrittore ebbe, una relazione lunga e intermittente che si interruppe nella
seconda metà degli anni ’70 quando, nel volgere di quattro anni (1975-79),
passò da consigliere comunale di Palermo eletto nelle liste del Pci a deputato
radicale. Discutendo con lui, a più riprese, ho cercato di indagarne i motivi,
almeno quelli più connessi con taluni passaggi importanti della vita del Pci
isolano. Nei miei appunti non c’è molto, perciò scrivo quel che rammento
(magari rischiando qualche imprecisione e omissione), prima che il ricordo
svanisca fra le nebbie della memoria. Può darsi che qualcuno non apprezzerà o
se ne lagnerà. Pazienza. Posso, comunque, assicurare che il fine è solo quello
di rassegnare il mio ricordo, certo non esaustivo del più complesso rapporto
fra Sciascia e il Pci che, forse, andrebbe meglio indagato. L’anniversario potrebbe
essere l’occasione per stimolare gli studiosi ad avviare la ricerca anche su
questo versante della personalità dello scrittore che resta poco conosciuto,
specialmente dalle nuove generazioni.
3. Premetto anche che non sono stato
“amico” di Sciascia, nel senso che con lui non ebbi mai un’intimità, una
frequentazione intensa sul piano personale. L’ho incontrato in qualche
convegno. Una sola volta lo andai a trovare alla “Noce”, nella sua casa di
campagna, a Racalmuto, e un’altra volta lo vidi a Porta di Ponte, ad Agrigento,
mentre, con la busta della spesa in mano, usciva dalla Standa con a fianco la
moglie. Prendemmo un caffé al bar Milano. Di più mi è capitato d’incontrarlo
alla Camera dove, di tanto in tanto, veniva quando era deputato radicale. Nelle
lunghe attese si rifugiava nella sala dei giornali. Sebbene fossimo colleghi,
lo salutavo con un rispettoso “professù”, come lo salutavano i compagni di
Racalmuto. Incontri casuali, dunque, (per me molto graditi) come possono avvenire
fra due compaesani che si ritrovano in una piazza di una città lontana. Un
caffè alla bouvette e poi quattro chiacchiere, avanti e indietro,
nel corridoio dei “passi perduti”. Sciascia, talvolta, si appoggiava al
bastone, anche se apparentemente sembrava non averne bisogno.
4. Prima che politico, il mio approccio
con lo scrittore era del lettore, dell’estimatore del suo stile letterario, del
suo scrivere conciso ed efficace nella rappresentazione e nell’intuizione. Tuttavia,
quasi mai parlammo dei suoi libri e/o di letteratura in genere. Eravamo nel
tempio della politica ed era giocoforza parlare di cose politiche sulle quali,
per altro, non sempre si era d’accordo. Del resto, eravamo deputati di due
partiti diversi e sovente in polemica. Tuttavia, ero molto interessato a
conoscere il suo punto di vista di scrittore su determinate questioni
politiche. L’elezione a deputato non gli aveva fatto superare del tutto il
disagio verso la politica attiva. Nei suoi scritti Sciascia aveva mostrato un
buon fiuto politico, ma non riusciva a adattarsi al ruolo di parlamentare. O,
forse, non desiderava adattarvisi. Credo che sia venuto in Parlamento solo per
far parte della Commissione d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Aldo
Moro.
5. Leonardo Sciascia, pur essendo
nativo di Racalmuto, centro minerario dell’agrigentino a cui rimase legato per
tutta la vita, non ebbe molte frequentazioni con il Partito e con i dirigenti
della provincia di Agrigento. Di più frequentò alcuni dirigenti e intellettuali
comunisti di Caltanissetta (Giuseppe Granata, Emanuele Macaluso, Calogero
Roxas, Gino Cortese, ecc.) dove studiò e visse per un certo tempo. Tuttavia,
per quanto a me risulta, la Federazione comunista di Agrigento lo interpellò
per candidarlo al Senato. Sciascia, pur dichiarando una certa affinità d’idee
col Pci, rifiutò dicendo che desiderava continuare a scrivere senza essere distratto
dall’attività politica verso la quale non si sentiva portato.
6. La sua “discesa in campo” avvenne
nel 1974, in occasione della campagna per il referendum per l’abolizione della
legge sul divorzio. Una battaglia importante per i diritti civili e di libertà
molto cari allo scrittore il quale decise d’impegnarsi in prima persona
nel fronte del “No” (pro-divorzio) che in Sicilia non era, sulla carta,
maggioritario. Ad Agrigento eravamo ancor più preoccupati, poiché in questa provincia
periferica era forte l’influenza politica e culturale della Dc e della Chiesa
cattolica. Sciascia non si limitò a firmare qualche appello, ma diede una mano
in concreto, partecipando a conferenze e incontri pubblici che, credo, in altre
circostanze avrebbe evitato. Ad Agrigento tenne un’affollata conferenza al
cinema Astor. Ricordo che nella città dei Templi gli eventi più rimarchevoli di
quella campagna referendaria furono la citata conferenza di Sciascia e la
memorabile manifestazione popolare con Enrico Berlinguer. Per la cronaca,
nell’agrigentino il “No” vinse alla grande.
L’impegno di
Sciascia, di Renato Guttuso e di altri intellettualidi sinistra e progressisti
fu decisivo per scuotere il mondo della cultura,dell’Università e della scuola
in genere che, per la prima volta, dopo il 1968,si schierava a difesa di una
conquista laica, di civiltà, che rischiava diessere travolta.
7... Dopo la vittoria, per noi si pose il
problema di assicurare continuità a questa battaglia di progresso estendendola
ad altri campi della condizione civile e sociale siciliana e soprattutto di non
disperdere il grande patrimonio di forze intellettuali, anche di tendenza moderata,
che sull’onda della vittoria referendaria potevano spostarsi a sinistra.
Per altro,
il referendum trovò il partito siciliano nel vivo di un confronto interno, a
tratti anche duro, per il rinnovamento dei gruppi dirigenti e del modo di fare
politica.
Anche la
vecchia struttura, prevalentemente contadina, del Pci siciliano stava facendo i
conti col ’68. Non quello importato da Milano o da Roma, ma quello più fecondo
e unitario esploso nelle università e nelle scuole siciliane, agrigentine.
A quel
tempo, (dal1973) segretario regionale del Pci era Achille Occhetto (inviato in
Sicilia da Longo nel 1970, per “punizione” dicevano le malelingue) il quale
s’intestò la battaglia del rinnovamento che in alcune federazioni era già
iniziata qualche tempo prima e con successo.
Significativa
quella che abbiamo combattuto, e vinto, ad Agrigento che culminò nel congresso provinciale
del febbraio 1972.
Ricordo che
subito dopo quel congresso fu sciolto il Parlamento e quindi fummo costretti a
correre per preparare le liste e la campagna elettorale.
Per dare un
chiaro segnale di rinnovamento anche della nostra rappresentanza parlamentare
ponemmo il problema di non ricandidare due compagni di grande prestigio, ma
avanti con le legislature: il senatore Francesco Renda e l’on. Salvatore Di
Benedetto.
Iniziò la
ricerca di nomi alternativi. Per il collegio del Senato formulammo una rosa
ristretta fra cui Leonardo Sciascia che, interpellato, declinò l’invito.
8... Dopo la campagna elettorale del
1972, Achille Occhetto subentrò ad Emanuele Macaluso alla segreteria regionale.
Il cambio si
caratterizzò all’insegna del rinnovamento generazionale e del “nuovo modo di fare
politica” in Sicilia. Sotto accusa andò il cosiddetto “notabilato rosso” ossia
una serie di personalità carismatiche, di capipopolo, affermatisi durante le
lotte del dopoguerra, che il tempo aveva logorato. Per altro, Occhetto chiamò
in segreteria e alla guida di alcune federazioni provinciali alcuni compagni
esterni, suoi collaboratori ai tempi della Federazione giovanile comunista
italiana.
L’intento
era quello d’innestare nel gruppo dirigente siciliano, già in fase di
rinnovamento, un gruppo di giovani provenienti dal Nord.
Una folata
di “vento del nord” per modernizzare, cambiare gli assetti dirigenti del
Partito in terra di mafia e di predominio della Democrazia cristiana.
E così,
oltre a Michele Figurelli già in loco, giunsero, fra gli altri, Valerio
Veltroni (fratello di Walter) che dalla segretaria regionale sarà catapultato a
Trapani e i toscani Giulio Quercini segretario a Catania e Alessandro Vigni
segretario a Enna.
Qualcuno
parlò di “colonizzazione” del partito siciliano.
Leonardo
Sciascia invece - mi disse alla Camera- che vide di buon occhio
quell’operazione, anzi la ritenne necessaria.
Occhetto
fece leva su questo suo interesse per avviare, tramite Figurelli e V. Veltroni,
un contatto piuttosto intenso con lo scrittore.
9... Sciascia, dunque, approvò la
“calata” in Sicilia di questi giovani dirigenti del nord, anche se rimase
restio verso l’adesione ad un partito-chiesa come un po’ gli appariva il Pci,
verso il quale, per altro aveva accumulato alcune perplessità riferite a fatti
antichi (la contrastata esperienza del milazzismo) e più recenti riconducibili
alla segreteria di Macaluso.
Occhetto e i
suoi inviati del Nord garantirono a Sciascia che quel tempo era finito, per
sempre.
Ora a
dirigere il Partito c’erano loro, forze nuove, fresche formatesi in altri
contesti, nell’alveo delle lotte per la pace e del movimento studentesco e
affermatisi in Sicilia dopo una lotta durissima proprio contro i personaggi
verso i quali lui aveva riserve.
L’idea che
si voleva accreditare era quella che nel partito siciliano e negli organismi
collaterali era in atto una sorta di “rivoluzione culturale” che stava
liquidando ogni residua mentalità compromissoria e aperto il Partito alla
società civile, agli intellettuali progressisti, agli imprenditori onesti.
Insomma, a
Sciascia fu prospettato un mondo nuovo, una sorta di rivoluzione copernicana
della politica siciliana.
Lo scrittore
– ammetterà - che un po’ si lasciò sedurre dai discorsi di questi giovani “colonizzatori”
i quali, provenendo dal nord, parevano immuni dai difetti mostrati dai
dirigenti siciliani.
10... Perciò ruppe gli indugi e nel 1974
partecipò attivamente alla campagna referendaria e l’anno successivo accettò la
candidatura, come indipendente, a consigliere comunale di Palermo nella lista
del Pci.
Un bel colpo
per Occhetto che era riuscito dove tanti avevano fallito. Quello stesso
Sciascia che aveva rifiutato le profferte del Pci per un seggio nel Parlamento
nazionale ora accettava di candidarsi per un posto al consiglio comunale di
Palermo insieme a Renato Guttuso e allo stesso Occhetto, capolista. Ovviamente,
sarà eletto.
Si parlò di
svolta per Palermo, ma nel nuovo consiglio i numeri non promettevano facili cambiamenti.
Nonostante la discreta avanzata del Pci, la Dc e il centro-sinistra (di allora)
conservavano una solida maggioranza.
Per di più,
Sciascia ad ogni riunione del consiglio comunale era costretto a bighellonare
per ore fra i banchi di Sala delle Lapidi, impacciato e nervoso, in attesa che s’iniziassero
quelle interminabili, e spesso inconcludenti, sedute notturne.
Una
situazione frustrante che lo porterà, a pochi mesi dall’insediamento, alle
dimissioni dal consiglio comunale di Palermo. Lo scrittore, che mesi dopo sarà
seguito da Guttuso, motivò la sua inattesa decisione con i lunghi ritardi sui
tempi d’inizio delle sedute e in generale col confuso andamento dei lavori
d’aula.
Tutto ciò
era vero ma oltre quelle motivazioni c’era un disagio politico che
l’inquietava. Probabilmente, Sciascia, in quei pochi mesi d’impegno attivo nel
gruppo consiliare del Pci, cominciò ad avvertire una certa delusione rispetto
alle attese e alle promesse di cambiamento annunciate da Occhetto e dai suoi inviati.
11... Ne parlammo in quelle chiacchierate
a Montecitorio. Mi fece capire che presto si accorse che il cambiamento dato
per avvenuto in realtà era in gran parte di facciata, anzi di facce.
Insomma, un
po’ millantato dai dirigenti del nord per indurlo ad entrare in lista a
Palermo.
E - aggiungo
io – per fare di Sciascia un bel fiore all’occhiello da esibire nelle riunioni
romane e nei salotti buoni dell’intellighenzia di sinistra.
Lo scrittore
riteneva (e diversi fra noi) che Emanuele Macaluso, anche da Roma, continuasse ad
influire sul partito siciliano, soprattutto sul gruppo parlamentare all’Ars dove
operava Michelangelo Russo, uomo di sua stretta fiducia.
A parte
l’amara esperienza del milazzismo, citava in particolare l’episodio,
verificatosi ai primissimi anni ’70, della fusione tra Realmonte-Sali (società
dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco Morgante,
potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della regione on.
Giuseppe La Loggia.
Sciascia
conosceva bene la vicenda perché edotto dal prof. Antonio Lauricella, sindaco
dc di Grotte e comproprietario di una miniera di salgemma in territorio di
Petralia minacciata dal piano di fusione Ems-Sams.
Lauricella,
non sapendo più dove sbattere la testa (gli amici democristiani gli avevano
chiuso la porta in faccia), si rivolse all’uomo di cultura di sinistra, quasi
compaesano, che sapeva sensibile ai temi della trasparenza e della moralità
pubblica.
Consegnò a
Sciascia un dettagliato memoriale dal quale si evidenziava la supervalutazione
degli apporti privati (Sams) e i comportamenti quantomeno distratti dei partiti
politici di maggioranza e d’opposizione.
12... Anche molti fra noi consideravano
quella fusione un inganno che avrebbe fruttato miliardi alla Sams di Morgante e
soci e non avrebbe dato corso ai programmi di sfruttamento dei grandi
giacimenti di salgemma esistenti e di quelli scoperti, di recente, lungo la
costa agrigentina, da Realmonte a Ribera. Così è stato.
Sciascia
prese a cuore la questione e la girò ai suoi amici del Pci, facendone una sorta
di banco di prova per verificare la loro coerenza politica.
Vista la
sordità dei suoi interlocutori locali, inviò il memoriale alla segreteria
nazionale del Pci, accompagnato da una sua lettera in cui chiedeva un
intervento di Roma sul partito siciliano.
Non ebbe
risposta. La fusione si fece, con la benedizione anche dei vertici regionali
del Pci.
Non cercai
riscontri su ciò che Sciascia mi disse anche perché, avendo seguito, da
responsabile economico del Pci agrigentino, quella vicenda e i comportamenti
dei vari protagonisti, fui incline a crederlo per vero.
Per altro
quella chiacchierata fusione finirà in tribunale. Chi ne avesse voglia potrà consultare
le carte del processo, soprattutto, consiglio, le relazioni del prof. Piga,
perito della pubblica accusa.
13... Ma torniamo al percorso politico di
Leonardo Sciascia che nel 1979 è pluri capolista alla Camera per i radicali.
Sarà eletto
in più collegi con una valanga di voti di preferenza. Il grande scrittore
arriva, dunque, alla Camera nella veste di deputato radicale, accompagnato
dalla stima generale anche da parte di tanti esponenti siciliani di quella
Democrazia cristiana che lui accusava di contiguità con la mafia e col
malaffare.
Confesso che
vedere lo scrittore tra i banchi radicali mi procurava un certo rammarico. Ero convinto
che se ci fosse stata più correttezza l’avremmo potuto portare noi in Parlamento,
anche se, vedendolo all’opera, mi persuasi che quella radicale fosse la casacca
a lui più appropriata. Politicamente, Sciascia era un libertario. Mai sarebbe
diventato un comunista, anche se anticomunista non fu. Mai.
Nemmeno dopo
l’increscioso episodio delle presunte “rivelazioni” che Enrico Berlinguer gli avrebbe
fatto sui collegamenti delle Brigate Rosse con i servizi di Praga.
Sciascia mi
raccontò questa vicenda un paio di volte, in Transatlantico, una prima su mia
richiesta e una seconda in uno sfogo contro Guttuso.
14... Cos’era successo? Secondo Sciascia,
in un incontro informale e alla presenza di Guttuso, Berlinguer gli avrebbe
confidato che, da informazioni in suo possesso, risultava che settori della
Brigate Rosse fossero in collegamento con i servizi di Praga, fra i più fedeli
al Kgb. La qualcosa, detta dal segretario generale del Pci, avvalorava la tesi,
da taluni sostenuta durante il sequestro Moro, di un interesse di Mosca ad
eliminare il presidente della Dc per impedire l’attuazione del progetto del
“compromesso storico” che avrebbe aperto al Pci le porte del governo.
Com’è noto,
tale progetto era stato propugnato da Berlinguer e non condiviso dalle alte sfere
del Pcus che temevano un distacco, una deriva “revisionista” del Pci e di altri
partiti comunisti europei (Pcf e Pce), impegnati nella svolta
dell’eurocomunismo.
Sciascia,
troppo preso della vicenda umana e politica di Aldo Moro, sulla quale scrisse
un pamphlet controcorrente (“L’affaire Moro”), svelò la confidenza
fattagli da Berlinguer creando scandalo nell’opinione pubblica e gravissimo
imbarazzo nel gruppo dirigente del Pci.
Berlinguer
smentì su tutta la linea e propose querela. Sciascia, invece, confermò e chiamò
Guttuso a testimone. Quest’ultimo si venne a trovare in una situazione
davverodrammatica, giacché doveva scegliere di confermare la parola del
segretario del Partito, del cui Comitato centrale era membro prestigioso, o
quella del suo amico scrittore, siciliano come lui e compagno di tante
battaglie.
Guttuso, di
fatto, diede ragione a Berlinguer. Non sapremo mai se scelse la verità o
l’onorabilità del suo segretario generale.
Mentre
raccontava queste cose, Sciascia più che indignato mi parve amareggiato.
Credo che,
in cuor suo, se ne fosse fatta una ragione. Fra i due capiva di più Berlinguer
che certo non poteva ammettere d’aver detto quelle cose. Le conseguenze
sarebbero state davvero disastrose, incalcolabili. Lo ferì di più la
testimonianza sfavorevole del suo amico Guttuso, che, da artista, aveva il
dovere della verità facendola prevalere sull’appartenenza politica.
15... Ricordo che in quel periodo il suo
chiodo fisso era la drammatica condizione della Dc dopo i delitti Moro e
Mattarella. Una domenica, (19 settembre 1982) andai a trovarlo alla Noce, pochi
giorni dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Gli portai
una copia del mio libro “Per la Sicilia”. Lo trovai fisicamente un po’ giù. Mi
elencò quattro - cinque malattie di cui soffriva. Soprattutto si lamentò di una
fastidiosa cervicale.
Ovviamente,
parlammo del fatto di Dalla Chiesa e del suo articolo, apparso sul “Corriere
della Sera” quella mattina, in cui sosteneva la tesi, un po’ ardita, della
mafia come fenomeno eversivo.
Una mafia
che, avendo perduto la protezione della Dc e quindi dello Stato, uccide tutti
quelli che incontra sulla sua strada.
Gli feci
osservare che questi delitti potevano essere letti anche come la sfida
tracotante di una mafia che aspirava al predominio sulla Sicilia.
Anche la
strage di via Carini poteva essere interpretata come una dimostrazione di forza
attuata come da prassi. Quando, cioè, fu chiaro a tutti che il
generale-prefetto era stato un po’ abbandonato dallo Stato in una condizione di
solitudine e diffusa ostilità, (non solo mafiosa) e senza i poteri speciali
promessi.
Gli riferii
le “difficoltà”, soprattutto di carattere giuridico, prospettatemi dal ministro
dell’interno, on. Virginio Rognoni, a proposito dei poteri non attribuiti a Dalla
Chiesa e le “preoccupazioni” circolanti a Montecitorio, prima dell’assassinio,
a proposito dei trascorsi piduisti di Dalla Chiesa e di certe riserve
provenienti dagli uffici giudiziari di Milano.
Sciascia
ascoltò, ma restò fermo nella sua posizione. Secondo lui, la Dc, a differenza
dei tempi di Portella della Ginestra, oggi vorrebbe distaccarsi dalla mafia.
Molti dirigenti democristiani vivono nel terrore d’essere uccisi. Perciò, non
capiva il motivo di tanto accanimento contro la Dc quando, invece, bisognerebbe
incoraggiarla in quest’opera di distacco. Accennò a un colloquio avuto, di
recente, con l’on. Calogero Mannino.
16... Si passò, infine, all’argomento che
più mi premeva conoscere: il suo futuro politico.
Sciascia fu chiarissimo
e conciso. Mi ribadì l’intenzione di dimettersi da deputato a conclusione della
commissione d’inchiesta sul delitto Moro e di non volersi ripresentare alle
prossime elezioni.
Smentì anche
la voce secondo la quale poteva candidarsi col Psi di Craxi. Mi rispose: “Se
dovessi rifare questa “pazzia” mi ripresenterei coi radicali.”
Nel PR si
era trovato bene, giacché il regime interno gli consentiva la più ampia
libertà, anche se quel partito gli pareva destinato alla dissoluzione.
In ultimo,
il discorso ricadde sul suo impegno nelle liste del Pci a Palermo. Sciascia
scosse la testa e chiuse con un laconico: “Si è sbagliato da entrambe le
parti”.
(Agostino
Spataro)
Un testo più
sintetico è stato pubblicato in “La Repubblica” del 20 novembre 2009
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