ATTILIO BOLZONI
C’ERAVAMO conosciuti più di vent’anni
fa, alla fine dell’estate che ci aveva portato via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
«Vi accompagno da mio padre», ci disse Ciccio mentre con il forcone raccoglieva
il fieno per i suoi cavalli, al riparo nella stalla dietro l’ultima curva di
Marineo. Un’ora dopo eravamo tutti e quattro intorno alla tavola della sua casa
di Corleone.
C’era Peppe D’Avanzo, c’ero io e c’era Ciccio Accordino, il nostro
amico poliziotto che negli anni Ottanta faceva lo sbirro alla squadra mobile di
Palermo con Beppe Montana e Ninni Cassarà. Suo padre era lì, meravigliato che
due giornalisti volessero incontrarlo dopo tanto tempo. Suo padre, Tindaro, era
in pensione da una vita. Tindaro Accordino, poliziotto anche lui. Di quelli di
una volta: mezze parole e molti silenzi. Bisognava capirlo. Avevamo già avuto
la fortuna di avere il racconto della Corleone che chiamavano Tombstone —
pietra tombale — il resto dipendeva solo da noi. A quel pranzo ne seguirono
altri. Lunghi incontri, ogni ritorno sotto la Rocca Busambra era una scoperta.
Tindaro ci stava consegnando la sua storia di poliziotto — era stato
maresciallo al commissariato di Corleone — in una Sicilia dimenticata, quando
Totò Riina e Bernardo Provenzano erano due contadini (e mafiosi) di cui ancora
nessuno aveva sentito parlare fuori dai confini del paese. Dai suoi ricordi
sono nati alcuni capitoli de “Il Capo dei Capi”, il libro che Peppe e io
abbiamo scritto sulla vita del Corto.
Ieri Tindaro se n’è andato, a
novantadue anni. Mi ha avvertito suo figlio Ciccio: «Papà non c’è più… alle
quattro del pomeriggio». Era un uomo speciale. Si era tenuto tutto dentro per un
quarto di secolo. Da un piccolo paese della Sicilia aveva visto da vicino la
mafia più potente del mondo. Un inverno freddo, quello del 1992 a Corleone.
Accanto al padre c’era sempre il figlio, stretto a lui e ad ascoltare — come se
fosse la prima volta — il ricordo di quelle notti di appostamenti o delle
infinite perlustrazioni nei feudi di Strasatto o intorno alla Rocche di Rao.
Così Tindaro, un giorno, cominciò a raccontarci della notte del 15 dicembre
1963, alla galleria Aldisio, sopra Corleone sulla strada per Prizzi. «Il posto
di blocco era stato studiato per sorprendere dei rapinatori, una banda che in
quattro mesi aveva messo a segno tre colpi alle agenzie del Banco di Sicilia di
Palermo. Dentro la galleria si udì improvvisamente un grido, poi una
sventagliata di mitra...». Una Fiat 1100 percorse a retromarcia tutta la
galleria, poi un’ombra scivolò nella campagna. Era un uomo robusto, piccolo,
molto piccolo. I poliziotti lo arrestarono. Lo portarono in commissariato, incatenato
lo rinchiusero in una cella di sicurezza. L’uomo non parlava, non diceva
niente. Nella tasca della giacca aveva una carta d’identità intestata a
Giovanni Grande, coltivatore diretto di San Giuseppe Jato. Nella stanza degli
interrogatori il commissario Angelo Mangano beveva latte e lanciava urla contro
quel contadino, che non apriva bocca. Tindaro Accordino e il brigadiere Biagio
Melita, verso le quattro del mattino, aprirono la cella di sicurezza e si
avvicinarono all’uomo basso e tarchiato. Poi il brigadiere bisbigliò: «Io lo so
chi sei tu… tu sei Salvatore Riina». Lo riconobbe. Era latitante da più di
dieci anni per l’omicidio di Domenico “Menicu” Di Matteo, un ragazzino. «Sei tu»,
gli gridò in faccia Melita. E lui, all’alba del 16 dicembre 1963, confessò. Era
Riina Salvatore fu Giovanni e di Rizzo Maria Concetta, nato a Corleone il 16
novembre 1930. Fu il primo arresto (poi ce ne fu un secondo trentanove anni
dopo) di quello che sarebbe diventato il Capo dei Capi. Tindaro ci raccontò
cosa disse Totò Riina a lui e al brigadiere Melita quel giorno: «Voi dello
Stato ci mangiate sopra di noi, ci fate le tragedie, ci fate arrestare, ci
mandate in galera e ci mandate al confino. Meglio morto che sbirro». Totò Riina
se lo portarono all’Ucciardone, la notizia della sua cattura fu riportata nelle
pagine interne dei quotidiani palermitani soltanto sei giorni dopo. Una breve
in cronaca. Tindaro Accordino ci ricostruì quegli anni di Corleone, dopo la “guerra”
di Luciano Liggio contro Michele Navarra e l’aristocrazia mafiosa. Parlò tanto
del suo amico Biagio Melita, parlò del mitico commissario Mangano e della
cattura di don Lucianeddu (segnata da forti polemiche e contrasti fra polizia e
carabinieri), parlò di Ninetta Bagarella e dei suo fratelli Calogero e Leoluca.
Alla fine di quelle chiacchierate interminabili con Peppe abbiamo deciso di
mischiare i racconti e le gesta di Tindaro con quelle di Biagio, due personaggi
straordinari per farli diventare uno solo. Ma alla fine del “Capo dei Capi” —
chissà perché, forse per proteggere Tindaro ancora vivo — abbiamo scelto di
chiamare il nostro poliziotto nascosto Biagio M., come Biagio Melita. Sembra
ispirato soltanto a lui, a Biagio, l’eroe positivo della fiction televisiva andata
in onda una ventina di anni dopo sulla vita di Totò Riina. In realtà dietro
Biagio c’era Tindaro. L’ultima volta che l’ho visto è stato nel 2006. Una
domenica mattina, sulla piazza del suo paese. Lui vestito a festa e dietro di
lui i suoi figli, i generi, i nipotini. Tutti all’ombra di un grande oleandro.
Un ritratto di famiglia. Uno dei miei ricordi più belli di Corleone.
La Repubblica-Palermo, 21 agosto 2013
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