giovedì, agosto 22, 2013

Addio al maresciallo Accordino, il poliziotto che arrestò il futuro superboss Totò Riina

Il personaggio. È morto a 92 anni il poliziotto che ispirò il personaggio di Biagio nel libro e nella fiction televisiva “Il Capo dei Capi”

ATTILIO BOLZONI
C’ERAVAMO conosciuti più di vent’anni fa, alla fine dell’estate che ci aveva portato via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Vi accompagno da mio padre», ci disse Ciccio mentre con il forcone raccoglieva il fieno per i suoi cavalli, al riparo nella stalla dietro l’ultima curva di Marineo. Un’ora dopo eravamo tutti e quattro intorno alla tavola della sua casa di Corleone.
C’era Peppe D’Avanzo, c’ero io e c’era Ciccio Accordino, il nostro amico poliziotto che negli anni Ottanta faceva lo sbirro alla squadra mobile di Palermo con Beppe Montana e Ninni Cassarà. Suo padre era lì, meravigliato che due giornalisti volessero incontrarlo dopo tanto tempo. Suo padre, Tindaro, era in pensione da una vita. Tindaro Accordino, poliziotto anche lui. Di quelli di una volta: mezze parole e molti silenzi. Bisognava capirlo. Avevamo già avuto la fortuna di avere il racconto della Corleone che chiamavano Tombstone — pietra tombale — il resto dipendeva solo da noi. A quel pranzo ne seguirono altri. Lunghi incontri, ogni ritorno sotto la Rocca Busambra era una scoperta. Tindaro ci stava consegnando la sua storia di poliziotto — era stato maresciallo al commissariato di Corleone — in una Sicilia dimenticata, quando Totò Riina e Bernardo Provenzano erano due contadini (e mafiosi) di cui ancora nessuno aveva sentito parlare fuori dai confini del paese. Dai suoi ricordi sono nati alcuni capitoli de “Il Capo dei Capi”, il libro che Peppe e io abbiamo scritto sulla vita del Corto.
Ieri Tindaro se n’è andato, a novantadue anni. Mi ha avvertito suo figlio Ciccio: «Papà non c’è più… alle quattro del pomeriggio». Era un uomo speciale. Si era tenuto tutto dentro per un quarto di secolo. Da un piccolo paese della Sicilia aveva visto da vicino la mafia più potente del mondo. Un inverno freddo, quello del 1992 a Corleone. Accanto al padre c’era sempre il figlio, stretto a lui e ad ascoltare — come se fosse la prima volta — il ricordo di quelle notti di appostamenti o delle infinite perlustrazioni nei feudi di Strasatto o intorno alla Rocche di Rao. Così Tindaro, un giorno, cominciò a raccontarci della notte del 15 dicembre 1963, alla galleria Aldisio, sopra Corleone sulla strada per Prizzi. «Il posto di blocco era stato studiato per sorprendere dei rapinatori, una banda che in quattro mesi aveva messo a segno tre colpi alle agenzie del Banco di Sicilia di Palermo. Dentro la galleria si udì improvvisamente un grido, poi una sventagliata di mitra...». Una Fiat 1100 percorse a retromarcia tutta la galleria, poi un’ombra scivolò nella campagna. Era un uomo robusto, piccolo, molto piccolo. I poliziotti lo arrestarono. Lo portarono in commissariato, incatenato lo rinchiusero in una cella di sicurezza. L’uomo non parlava, non diceva niente. Nella tasca della giacca aveva una carta d’identità intestata a Giovanni Grande, coltivatore diretto di San Giuseppe Jato. Nella stanza degli interrogatori il commissario Angelo Mangano beveva latte e lanciava urla contro quel contadino, che non apriva bocca. Tindaro Accordino e il brigadiere Biagio Melita, verso le quattro del mattino, aprirono la cella di sicurezza e si avvicinarono all’uomo basso e tarchiato. Poi il brigadiere bisbigliò: «Io lo so chi sei tu… tu sei Salvatore Riina». Lo riconobbe. Era latitante da più di dieci anni per l’omicidio di Domenico “Menicu” Di Matteo, un ragazzino. «Sei tu», gli gridò in faccia Melita. E lui, all’alba del 16 dicembre 1963, confessò. Era Riina Salvatore fu Giovanni e di Rizzo Maria Concetta, nato a Corleone il 16 novembre 1930. Fu il primo arresto (poi ce ne fu un secondo trentanove anni dopo) di quello che sarebbe diventato il Capo dei Capi. Tindaro ci raccontò cosa disse Totò Riina a lui e al brigadiere Melita quel giorno: «Voi dello Stato ci mangiate sopra di noi, ci fate le tragedie, ci fate arrestare, ci mandate in galera e ci mandate al confino. Meglio morto che sbirro». Totò Riina se lo portarono all’Ucciardone, la notizia della sua cattura fu riportata nelle pagine interne dei quotidiani palermitani soltanto sei giorni dopo. Una breve in cronaca. Tindaro Accordino ci ricostruì quegli anni di Corleone, dopo la “guerra” di Luciano Liggio contro Michele Navarra e l’aristocrazia mafiosa. Parlò tanto del suo amico Biagio Melita, parlò del mitico commissario Mangano e della cattura di don Lucianeddu (segnata da forti polemiche e contrasti fra polizia e carabinieri), parlò di Ninetta Bagarella e dei suo fratelli Calogero e Leoluca. Alla fine di quelle chiacchierate interminabili con Peppe abbiamo deciso di mischiare i racconti e le gesta di Tindaro con quelle di Biagio, due personaggi straordinari per farli diventare uno solo. Ma alla fine del “Capo dei Capi” — chissà perché, forse per proteggere Tindaro ancora vivo — abbiamo scelto di chiamare il nostro poliziotto nascosto Biagio M., come Biagio Melita. Sembra ispirato soltanto a lui, a Biagio, l’eroe positivo della fiction televisiva andata in onda una ventina di anni dopo sulla vita di Totò Riina. In realtà dietro Biagio c’era Tindaro. L’ultima volta che l’ho visto è stato nel 2006. Una domenica mattina, sulla piazza del suo paese. Lui vestito a festa e dietro di lui i suoi figli, i generi, i nipotini. Tutti all’ombra di un grande oleandro. Un ritratto di famiglia. Uno dei miei ricordi più belli di Corleone.
La Repubblica-Palermo, 21 agosto 2013

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