Giuseppe Savagnone |
di GIUSEPPE
SAVAGNONE
L’annuncio che Papa Francesco lunedì prossimo farà il suo primo viaggio da Pontefice recandosi nell’isola di Lampedusa, per pregare in memoria dei migranti morti in mare, rivoluziona ancora una volta l’immagine di Chiesa che in questi anni era stata spesso accreditata presso l’immaginario collettivo e che gli scandali di certi ambienti vaticani sembravano – fino a ieri! - confermare. Ancora una volta il soffio imprevedibile della profezia sembra imporsi sulla tendenziale staticità che caratterizza ogni istituzione umana, anche quella ecclesiastica, e dà a questo pontificato un inedito spessore evangelico.
L’annuncio che Papa Francesco lunedì prossimo farà il suo primo viaggio da Pontefice recandosi nell’isola di Lampedusa, per pregare in memoria dei migranti morti in mare, rivoluziona ancora una volta l’immagine di Chiesa che in questi anni era stata spesso accreditata presso l’immaginario collettivo e che gli scandali di certi ambienti vaticani sembravano – fino a ieri! - confermare. Ancora una volta il soffio imprevedibile della profezia sembra imporsi sulla tendenziale staticità che caratterizza ogni istituzione umana, anche quella ecclesiastica, e dà a questo pontificato un inedito spessore evangelico.
All’idea di un papa che viaggia siamo ormai abituati e non è certo questo a sorprendere, bensì la meta di questo viaggio: una sperduta isoletta del Mediterraneo, più vicina all’Africa che all’Italia, un approdo a cui in questi anni centinaia di migliaia di disperati, ignobilmente sfruttati da trafficanti senza scrupoli, hanno teso le loro mani e i loro cuori, mettendo in gioco tutto quello che avevano, anche le loro vite, nella speranza di trovarvi per se stessi e per le loro famiglie una vita più umana. Per molti questa speranza è stata vana. Secondo un recente comunicato della comunità di S. Egidio e di altre associazioni cattoliche, dal 1988 ad oggi sono circa 19.000 coloro che sono morti in mare nel tentativo di giungere nel “paradiso Italia”. «Uomini, donne e bambini in fuga dalla fame, dalla guerra, dalle persecuzioni per le quali in molte parti del mondo ancora si muore», precisa il comunicato. Alla maggioranza dei superstiti si è aperta la porta dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), dove si sono trovati ammassati in condizioni spesso disumane e molto simili a quelle di veri e propri campi di concentramento, in attesa di un rimpatrio coatto che annulla tutti i loro immani sacrifici. Quelli che riescono a scampare a questo destino si aggirano per le nostre città, portando la pesante etichetta di “clandestino”, salvo ad essere impiegati per lavori pesanti e con salari di fame ogni volta che si ha bisogno di loro (perché noi abbiamo bisogno di loro!), senza che vi sia un accettabile progetto politico per aiutarli ad inserirsi e ad esser rispettati nella loro dignità di persone. Anche se sono passati, per fortuna, i tempi in cui esponenti del governo proponevano di affondare a cannonate i barconi di questi derelitti, non si può dire che il problema dell’immigrazione sia stato ancora affrontato dalle autorità del nostro Paese (né da quelle dell’Europa intera) in quello spirito di apertura che - senza buonismi e senza rinunziare ai controlli e alle inevitabili limitazioni - può valorizzare le opportunità positive contenute nell’attuale fenomeno migratorio.
La comunità cristiana, attraverso varie forme di volontariato, ha già da tempo operato nella quotidianità, assai più e assai meglio dello Stato, per assistere queste persone, ma non c’è mai stata, finora, una presa di posizione ufficiale lontanamente paragonabile al gesto di attenzione e di amore che papa Francesco sta per compiere nei loro confronti. Già nel suo intervento alle riunioni precedenti il Conclave, l’allora cardinale Bergoglio aveva sottolineato che l’evangelizzazione richiede, da parte della Chiesa, lo sforzo «di uscire da se stessa» e di recarsi «verso le periferie, non solo quelle geografiche ma anche le periferie esistenziali». Perché, aveva aggiunto, quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare «diventa autoreferenziale e allora si ammala». E Lampedusa è certamente, sia dal punto di vista geografico che da quello esistenziale, una di queste periferie. Gli effetti di questo “uscire” si possono valutare sotto profili diversi. Uno è certamente quello politico. Il papa non va, ovviamente, a portare soluzioni su questo piano. Ma il suo viaggio in un crocevia di speranza e di disperazione come Lampedusa non può non scuotere le coscienze di tutti i cittadini, credenti e non credenti, e costringere le forze politiche a una riflessione ulteriore. Un altro riguarda il rapporto della Chiesa con i mondi culturali e religiosi da cui questi migranti provengono e che portano con sé venendo in Italia. Una Chiesa che prega per i loro morti, evidenziando così anche il suo interesse per i vivi, si pone in un atteggiamento di accoglienza misericordiosa che può solo disorientare i fanatici sostenitori dello “scontro di civiltà”. Ma il profilo più importante sotto cui va visto il gesto di papa Francesco è quello religioso della fedeltà della comunità ecclesiale al Vangelo. La sua denuncia dei pericoli di un’autoreferenzialità che punta sul prestigio e sul potere dell’istituzione ecclesiastica e la sua indicazione di un perenne esodo verso i fratelli e le sorelle, soprattutto gli ultimi, come fondamentale antidoto a questa tentazione demoniaca, trova nel viaggio a Lampedusa una espressione simbolica concreta. Di fronte alle tristi notizie di questi giorni, relative a una Chiesa che davvero è, in alcuni suoi settori, “ammalata” di carrierismo, di affarismo, di collusione coi potenti e coi disonesti, la figura di Francesco, che si spinge fino agli estremi confini dell’Italia e dell’Europa per pregare con i più poveri e per i più poveri, è un’icona che ricorda a tutti, prima di tutto ai cristiani, che la Chiesa è il prolungamento della presenza di Cristo nella storia. FONDI@GDS.IT
Giornale di Sicilia, 2 luglio 2013
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