Alessandro Manzoni |
di Giorgio
Petta
Nel suo capolavoro Alessandro Manzoni racconta il Paese nel Seicento e di oggi:
mafia compresa. Il contesto. Violenza, consorterie, protezioni, complicità,
impunità, silenzi, codardie sono simili
Ricordate
"I promessi sposi", la storia di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella,
del loro matrimonio mancato e ritardato per colpa di un prepotente? Ricordate
Don Abbondio, il sacerdote che doveva sposarli, bloccato, il 7 novembre 1628,
mentre recita il breviario lungo un viottolo dai due bravi al servizio di Don
Rodrigo? E la frase - che ha finito per entrare nel nostro eloquio quotidiano -
«questo matrimonio non s'ha da fare»? Centosettantre anni dopo l'edizione del
1840, il romanzo di Alessandro Manzoni, seppure ambientato nel Seicento, resta
lo specchio più fedele e inossidabile dell'Italia. Quella di ieri e quella,
purtroppo, ancora di oggi.
Ed è un peccato che di questo capolavoro assoluto della letteratura mondiale,
restino - per la maggior parte di noi - soltanto i ricordi appannati e
infastiditi risalenti al periodo scolastico, quando era una "luffa"
insopportabile leggerlo, studiarlo e commentarlo in temi dalle tracce spesso
indecifrabili. Peccato. Perché in realtà "I promessi sposi" dovrebbe
essere il libro da comodino per definizione, sempre a portata di mano,
utilissimo per interpretare e capire la quotidianità del nostro Paese.
C'è l'intero universo italico - del bene e del male, delle figure positive e di quelle negative, che possiamo riconoscere, una per una, senza difficoltà nella realtà attuale - nell'intuizione geniale di Alessandro Manzoni nel dipingere questo inimitabile affresco nazionale. Mafia compresa. Anche se lui non utilizza questo termine. Ma il "contesto" in cui si sviluppa la storia è preciso. Violenza, consorterie, protezioni, complicità, impunità, silenzi, codardie. Già al primo capitolo, dopo averci descritto l'incontro di don Abbondio «vaso di terra cotta tra vasi di ferro» ed avere riportato e criticato il contenuto e la verbosità delle "grida", cioé degli editti emanati dai viceré e governatori spagnoli della Milano dell'epoca nel vano tentativo di debellare il fenomeno criminale dei bravi.
«Don Abbondio - leggiamo - non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella di un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun modo l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui». E' o no la condizione della maggior parte dei cittadini del nostro Paese?
«Non già - continua Manzoni - che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli di impedimento a profferire una condanna; gli squarci che abbiam riportate delle grida contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedele saggio».
Con le debite eccezioni e il sacrificio della vita - a proposito dei giudici di oggi - la realtà ha cominciato, fortunatamente, a cambiare. Ma questo non cambia la sostanza. "I promessi sposi" è uno dei rari romanzi per la vita. Denso di contenuti. Per chi ha Fede e per chi non ce l'ha oppure ne è in cerca. Per chi riconosce l'esistenza di una Provvidenza che spiana la strada alla verità e per chi ne nega l'esistenza. Un romanzo fortemente segnato da un'ironia salvifica e rivelatrice compresi i momenti di maggiore tensione emotiva.
Dei "bravi" - per fortuna - non si parla più. Oggi si chiamano "uomini d'onore", "ndranghetisti", "camorristi". Per la loro scomparsa definitiva - insieme con la realtà che finora li ha nutriti e protetti - ci affidiamo alle parole liberatorie pronunciate dal giudice Giovanni Falcone: «Ogni fenomeno umano, compresa Cosa nostra, ha un inizio e una fine. E' ineluttabile».
Il processo di cura ed eliminazione di questo cancro sociale - che è soprattutto una presa di coscienza politica, democratica e sociale - è già, sia pur lentamente e tra mille difficoltà, avviato. I risultati verranno. Ma a leggere Manzoni sembra di immergersi nella realtà di una Sicilia ancora perdurante appena qualche decennio fa.
«L'impunità - leggiamo sempre nel primo capitolo, ma gli effetti e le conseguenze ci accompagnano per l'intero romanzo - era organizzata, e aveva radici che le grida non toccavano, o non potevano smuovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati, con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e con gelosia di puntiglio».
Sembra o no di essere dentro l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia?
«Ora, quest'impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle grida - spiega Manzoni - doveva naturalmente, ad ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperare nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all'apparire delle grida dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a fare ciò che le grida venivano a proibire. Potevano ben esse inceppare ad ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebbero mai osato metter piede; chi, senz'altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse di una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle grida. Di quegli stessi ch'erano deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela: gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciato le massime, e si sarebbero ben guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata - commenta amaramente Manzoni - quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com'eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d'essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare».
La Sicilia, 23/06/2013
C'è l'intero universo italico - del bene e del male, delle figure positive e di quelle negative, che possiamo riconoscere, una per una, senza difficoltà nella realtà attuale - nell'intuizione geniale di Alessandro Manzoni nel dipingere questo inimitabile affresco nazionale. Mafia compresa. Anche se lui non utilizza questo termine. Ma il "contesto" in cui si sviluppa la storia è preciso. Violenza, consorterie, protezioni, complicità, impunità, silenzi, codardie. Già al primo capitolo, dopo averci descritto l'incontro di don Abbondio «vaso di terra cotta tra vasi di ferro» ed avere riportato e criticato il contenuto e la verbosità delle "grida", cioé degli editti emanati dai viceré e governatori spagnoli della Milano dell'epoca nel vano tentativo di debellare il fenomeno criminale dei bravi.
«Don Abbondio - leggiamo - non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella di un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun modo l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui». E' o no la condizione della maggior parte dei cittadini del nostro Paese?
«Non già - continua Manzoni - che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli di impedimento a profferire una condanna; gli squarci che abbiam riportate delle grida contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedele saggio».
Con le debite eccezioni e il sacrificio della vita - a proposito dei giudici di oggi - la realtà ha cominciato, fortunatamente, a cambiare. Ma questo non cambia la sostanza. "I promessi sposi" è uno dei rari romanzi per la vita. Denso di contenuti. Per chi ha Fede e per chi non ce l'ha oppure ne è in cerca. Per chi riconosce l'esistenza di una Provvidenza che spiana la strada alla verità e per chi ne nega l'esistenza. Un romanzo fortemente segnato da un'ironia salvifica e rivelatrice compresi i momenti di maggiore tensione emotiva.
Dei "bravi" - per fortuna - non si parla più. Oggi si chiamano "uomini d'onore", "ndranghetisti", "camorristi". Per la loro scomparsa definitiva - insieme con la realtà che finora li ha nutriti e protetti - ci affidiamo alle parole liberatorie pronunciate dal giudice Giovanni Falcone: «Ogni fenomeno umano, compresa Cosa nostra, ha un inizio e una fine. E' ineluttabile».
Il processo di cura ed eliminazione di questo cancro sociale - che è soprattutto una presa di coscienza politica, democratica e sociale - è già, sia pur lentamente e tra mille difficoltà, avviato. I risultati verranno. Ma a leggere Manzoni sembra di immergersi nella realtà di una Sicilia ancora perdurante appena qualche decennio fa.
«L'impunità - leggiamo sempre nel primo capitolo, ma gli effetti e le conseguenze ci accompagnano per l'intero romanzo - era organizzata, e aveva radici che le grida non toccavano, o non potevano smuovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati, con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e con gelosia di puntiglio».
Sembra o no di essere dentro l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia?
«Ora, quest'impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle grida - spiega Manzoni - doveva naturalmente, ad ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperare nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all'apparire delle grida dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a fare ciò che le grida venivano a proibire. Potevano ben esse inceppare ad ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebbero mai osato metter piede; chi, senz'altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse di una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle grida. Di quegli stessi ch'erano deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela: gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciato le massime, e si sarebbero ben guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata - commenta amaramente Manzoni - quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com'eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d'essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare».
La Sicilia, 23/06/2013
Nessun commento:
Posta un commento