Pino Puglisi recentemente beatificato |
di
ALESSANDRO ESPOSITO
Sabato 24
maggio, a un giorno appena di distanza dal ventunesimo anniversario della
strage di Capaci, il foro italico di Palermo si presentava gremito in occasione
della beatificazione di Pino Puglisi, prete antimafia che visse e, soltanto per
questo, predicò l’evangelo di Gesù nel difficile quartiere di Brancaccio, cuore
di quella stessa Palermo strettasi intorno a lui già in occasione del suo funerale,
il 17 settembre del 1993.
Il fatto che
il mondo cattolico onori la memoria di un uomo come Pino Puglisi non può che
incontrare il pieno assenso in seno al mondo laico, è fuor di dubbio: così come
è fuor di dubbio che il messaggio politico (che c’è, è inutile negarlo) che
sostanzia questa canonizzazione sia, a mio modo di vedere, più incoraggiante e
condivisibile rispetto alle motivazioni (anch’esse indubbiamente politiche) che
spinsero Giovanni Paolo II a beatificare, nel maggio del 1992, il fondatore
dell’Opus Dei Josemaría Escrivá.
Svolta
questa premessa, tesa a prevenire quelle critiche che, ad ogni modo, una parte
del mondo cattolico non mi risparmierà, vorrei provare ad andare al di là della
pur bella cornice che la cerimonia di ieri ha senza alcun dubbio costituito,
per analizzare, parzialmente, va da sé, i suoi retroscena.
La
beatificazione, difatti, un po’ come la confessione auricolare e la conseguente
remissione dei peccati immancabilmente mediata dalla figura sacerdotale, è
simbolo a mio avviso piuttosto eclatante di un duplice aspetto che caratterizza
il cattolicesimo come cultura, prima ancora che come religione. Da un lato,
difatti, vi intravedo la docilità obbediente, sino alla remissività, dei fedeli
che, sia detto per inciso, mi paiono assai più fedeli alle gerarchie e ai diktat
che da esse provengono, piuttosto che ad un evangelo che giace sepolto
sotto gli orpelli della struttura dogmatica ed ecclesiastica di cui, peraltro,
la procedura di beatificazione è parte integrante.
In seconda istanza,
il gesto tardivo della canonizzazione serve a cancellare le omissioni che la
chiesa cattolica, come istituzione, ha perpetrato nei confronti della stessa
persona che ora si premura di beatificare, dopo aver deliberatamente deciso di
abbandonarla al suo destino quando era ancora possibile sostenerla e
proteggerla: discutibilissimo, eppure in ambito cattolico tradizionale assai
poco discusso, atto di autoassoluzione.
Ecco perché,
in definitiva, di fronte ad eventi partecipati e, nella sostanza, condivisibili
come quello celebrato sabato nella mia Sicilia, non riesco a scrollarmi di
dosso l’impressione di formalità ammantata di ipocrisia.
Già mi pare
di udire le voci dei miei solerti detrattori richiamare alla mia memoria le
parole pronunciate da Wojtyla – anch’egli appartenente alla folta schiera dei
beatificati – contro la mafia, il 9 maggio del 1993, nella suggestiva cornice
della valle dei templi agrigentina. Già: le parole.
Vorrei
replicare ad esse con altre parole, altrettanto dure e assai più vere, vergate
dallo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, costretto all’esilio durante il
buio periodo della dittatura militare che, nel suo Paese come in tutto il
continente latino-americano, ricevette la benedizione dello stesso Wojtyla,
ossessionato dallo spettro del comunismo e certo digiuno circa i principi
fondamentali di quella conquista, ancora ignota Oltretevere, che risponde al
nome di democrazia:
«Nella
primavera del 1979, l’arcivescovo di El Salvador, Oscar Romero, si recò presso
il Vaticano: chiese, implorò, mendicò un’udienza presso il papa Giovanni Paolo
II. “Aspetti il suo turno”. “Torni domani”. Alla fine, mettendosi in fila con
gli altri fedeli che attendevano la benedizione, Romero sorprese sua santità e
poté rubargli qualche minuto. Cercò di consegnargli un voluminoso dossier,
con foto e testimonianze, ma il papa glielo restituì: “Non ho il tempo per
leggere tante cose”. Romero balbettò che migliaia di salvadoregni erano stati
torturati e assassinati dalla dittatura militare. Il capo della chiesa lo
interruppe seccamente: “Non esageri, signor arcivescovo!”. Dieci mesi dopo
Romero fu freddato in una parrocchia di San Salvador. Da Roma, il sommo
pontefice condannò il crimine. Dimenticò di condannare i criminali»[1].
Ecco perché,
sebbene già si sussurri in vaticano della prossima canonizzazione
dell’arcivescovo salvadoregno, si tratterà pur sempre di un gesto, nella
migliore delle ipotesi, tardivo.
Alessandro
Esposito – pastore
valdese
(Micromega, 27 maggio
2013)
NOTE
1 Tratto da: Espejos, Siglo Veintiuno
editores, Buenos Aires, 2008, cit. pagg. 319-320 (traduzione mia)
2 commenti:
Carissimo amico,
grazie per la sua testimonianza contro ogni ipocrisia. Ci incoraggia sempre più ad andare avanti nella Ecclesìa universale/locale a sporcarci le mani di/e nella Verità. E se l'ipocrisa macchia la nostra Chiesa CRISTIANA CATTOLICA PREGHI PER NOI POVERI PECCATORI BISOGNOSI DI PERDONO nell'unico Signore Gesù Cristo! gRAZIE Maurizio Nicastro!
In seno alla Chiesa cristiano-cattolica esiste anche il gruppo dei PRETIOPERAI, che sono combattivi e lottano per assicurare a TUTTI gli uomini una vita dignitosa. Uno di loro, sulla rivista "QUALE VITA", ha espresso il desiderio che al Pontefice sia revocata l'attribuzione dell'INFALLIBILITA'. Sosteniamoli !
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